In queste drammatiche giornate, siamo tutti più sensibili ai temi del fine vita e forse siamo più pronti a esaminare e valutare nella loro essenzialità i dati che documentano i molti risvolti del tema. Come quello delle decisioni che devono affrontare i neonatologi di fronte ai loro piccoli pazienti che si trovano in condizioni disperate ma che non possono esprimere sensazioni, intenzioni, aspirazioni. A questo proposito è il caso di riflettere bene sui risultati di una ricerca condotta da due medici italiani e pubblicati sull’ultimo numero della rivista specializzata internazionale Acta Pediatrica. I due ricercatori, Carlo V. Bellieni e Giuseppe Buonocore, del Dipartimento di Pediatria dell’Università di Siena, hanno esaminato a fondo la letteratura scientifica sull’argomento analizzando i database dei due mega archivi mondiali di riferimento, PubMed e Medscape, a partire dai documenti del 1995.
I database sono stati setacciati con criteri molto rigorosi; sono state utilizzate come parole chiave: neonato, prematuro, decisioni sul fine vita, sospensione/limitazione del trattamento, qualità della vita; sono stati esaminati gli studi che considerano i fattori personali, psicologici, sociali e culturali che portano alle decisioni sul fine vita; sono stati invece esclusi gli articoli e le rassegne che riportano solo le “opinioni” degli autori. In totale sono risultati utili 34 studi e su questi si è concentrato il lavoro di Bellieni e Buonocore. Le conclusioni, messe in evidenza nel sottotitolo dalla redazione della rivista, sono impressionanti: «nelle decisioni sul fine vita dei neonati, i pazienti non ricevono cure basate solo sul loro miglior interesse».
I fattori emersi come determinanti nel processo decisionale dei medici sonopiuttosto il peso delle proprie paure, del proprio background culturale e di altre determinanti (sesso, età, etnia) che mostrano la mancanza di una linea oggettiva su cui decidere. «Questo è grave a mio parere – commenta Bellieni – perché ognuno può avere un’idea di quello che sia l’interesse del neonato diversa da quella dell’altro collega. Ma il vero problema non è puntare il dito sui medici o tantomeno sui genitori, ma sulle legislazioni che legando la rianimazione alla supposta qualità di vita – e non a un’oggettiva impossibilità alla vita – lasciano medici e genitori schiacciati sotto il peso delle terribili decisioni».
E non si può dire che ci sia uniformità di posizione a partire dall’età, dalla nazionalità e dal sesso dei decisori. Gli studi non sono ancora del tutto chiari su certi parametri; ma ad esempio uno studio del 2000 riportato nella ricerca mostra che sia l’atteggiamento mentale di fronte alla disabilità (per esempio se sia meglio morire o avere una grave disabilità fisica), sia quello verso l’accettazione della sospensione delle cure, variano molto da nazione a nazione. Così come influisce l’avere in famiglia dei parenti disabili, avere o non avere figli, essere o non essere religiosi. Alcuni studi hanno trovato anche una differenza di comportamento tra medici maschi e femmine.
Il criterio con cui si rianima un neonato appare da vari studi ben diverso da quello con cui si rianima un adulto: nel primo caso sembra in certi Stati prevalere il criterio della qualità della vita futura del bimbo e del parere dei genitori, cosa che negli stessi Stati non avviene quando si decidono le cure per l’adulto, per il quale certi eventi come l’arresto cardiaco hanno una prognosi ben peggiore di quella di un neonato di 23 settimane. Alcuni studiosi si domandano perciò se «i neonati hanno uno stato morale diverso dagli adulti».
Certo, l’atteggiamento dei genitori, un po’ in tutti i casi esaminati e indifferentemente nei diversi Paesi, conta molto fino a diventare determinante. «D’altra parte gli studi mostrano come, al momento della nascita prematura di un bambino verosimilmente grave, i genitori siano in un tale stato di shock che qualunque responsabilità venga loro addossata sarebbe una violenza».
Un criterio spesso invocato è proprio quello della previsione della qualità di vita; ma è difficile sottrarsi all’idea che si tratti di un concetto troppo generico e soggettivo per utilizzarlo in decisioni del genere. «E poi spesso è usato male. Vari studi mostrano che, analizzando in persone disabili (con spina bifida, o con paralisi cerebrale) il livello di qualità di vita da loro percepito, la risposta è simile a quella della restante popolazione: a dimostrazione che spesso sono i nostri pregiudizi a farci pensare che certe malattie alterino la qualità e addirittura la dignità della vita. Il problema è semmai che molto si deve ancora fare socialmente, culturalmente ed economicamente per le famiglie dei disabili. Inoltre, si sappia che alla nascita non esistono strumenti per prevedere la prognosi, che si renderà chiara solo molto tempo dopo».
Lo studio di Bellieni e Buonocore si spinge anche a delineare le prospettive per il futuro, indicando le principali proposte sul tappeto e alcuni nuovi criteri e metodi che si stanno elaborando per aiutare il personale medico nelle sue decisioni. C’è il criterio avanzato dal Nuffield Council of Bioethics, che considera l’età gestazionale e indica le 24 settimane come data per iniziare a somministrare cure intensive; c’è chi indica l’emergere della coscienza come criterio per far scattare un diritto alla piena assistenza: quindi un criterio interno alla persona, anche se stabilire quella data è tuttora un impresa al di sopra delle possibilità della ricerca scientifica. «In sostanza – osserva Bellieni – ci sono due criteri generali: decidere sulla possibile futura qualità della vita, oppure dare a tutti una chance, sapendosi fermare quando si vede che gli sforzi sono inutili. E si badi bene che “inutili” non deve significare “inutili a far diventare un bambino normale”, ma inutili a salvare la vita: la disabilità (tantomeno se solo ipotetica o probabile) non deve essere un criterio per arrestare le cure. In questo secondo senso si è virtuosamente espresso il comitato Italiano Nazionale di Bioetica e il nostro Istituto Superiore di Sanità. È evidente che il secondo criterio, dare una chance a tutti, taglia fuori tute le possibili interferenze psicologiche».
Quello che più ha colpito i due medici autori dello studio è il peso dei pregiudizi personali degli operatori sanitari. Bellieni cita sopratutto una ricerca francese e una australiana: nella prima si domandava ai medici se rianimerebbero un bimbo di 24 settimane e, in una successiva domanda, se ne rianimerebbero uno col 50% di possibilità di sopravvivenza e il 10% di non avere conseguenze patologiche. Ebbene, solo il 21% degli intervistati rispondeva “sì” nel primo caso, mentre la percentuale saliva al 51% nel secondo, «non rendendosi conto che il secondo caso è esattamente la descrizione della prognosi di un bimbo di 24 settimane!»
Lo studio australiano invece ha evidenziato che, quando si ritiene “futile” una terapia, «i medici che più sospendono le cure sono quelli che più hanno paura di morire».