Il dibattito su evoluzionismo e creazionismo non ha avuto grande eco nel pensiero ebraico contemporaneo. Si possono probabilmente rintracciare anche nel mondo ebraico tutte le posizioni presenti in quello cristiano, dalla rivendicazione della lettura tradizionale della creazione del mondo in esattamente sei giorni intorno al capodanno ebraico di 5769 anni fa, fino alla più totale accettazione dei risultati della scienza moderna. Ciò ha a che fare in primo luogo con il pluralismo intrinseco all’ebraismo, che non solo si è diviso nel mondo contemporaneo in diverse correnti più o meno esclusive fra loro (per citare le principali: l’ebraismo tradizionale, diviso a sua volta in tradizione sefardita o mediterranea e askenazita o germanico-polacca, e quest’ultima fra tradizione hassidica e “lituana”, la posizione detta modern orthodox dominante in Italia, i “conservative” e i “reform”), ma che soprattutto non ha avuto un’autorità normativa religiosa centrale a partire dai tempi biblici. Le decisioni normative, quando sono state prese, si sono basate sull’autorità personale riconosciuta per consenso a singoli pensatori e hanno avuto effetti sulle regole di comportamento ebraico (i cosiddetti precetti, mitzvot) e sulla liturgia, praticamente mai sul pensiero. Non esiste una dogmatica ebraica accettata da tutti e anche i tredici basilari principi di fede proposti da Maimonide nel XII secolo sono stati spesso discussi e disattesi. Soprattutto sono rimasti sempre periferici rispetto al pensiero ebraico, più attento alla dimensione pratica del comportamento (la cosiddetta alakha) o a quella mitico-mistico (la Kabbalà) che a una teologia formale. Una sentenza spesso citata dei grandi rabbini del Talmud, all’inizio della formazione dell’ebraismo postbiblico, proibisce di indagare «ciò che sta sopra, ciò che sta sotto, ciò che sta prima» la narrazione biblica. Insomma la teologia e la metafisica, nel senso che il cristianesimo ha ereditato dalla filosofia greca, sono estranee all’autentico pensiero ebraico, benché ogni tanto si presentino anche in esso, spesso per influenze esterne.
Dunque non c’è una dogmatica ebraica da contrapporre alle scoperte scientifiche, ma solo un racconto e una raccolta di leggi, la Torah o insegnamento. Ciò ha comportato, nel momento in cui l’ebraismo è entrato a contatto con la scienza, una certa facilità di far convivere la dimensione religiosa e quella scientifica. Molti scienziati ebrei del Novecento sono stati più o meno atei o agnostici, come Einstein, ma non sono mancati esempi di scienziati ebrei ortodossi che non si sono sentiti in imbarazzo a far convivere le loro ricerche con la loro fede.
Per quanto riguarda in particolare il rapporto fra creazione e le scoperte biologiche (ma anche geologiche e astronomiche) che determinano oggi la visione scientifica del mondo, l’ebraismo è stato molto agevolato dal fatto che vi sono alternative autorevoli all’interpretazione tradizionale letteralista della creazione (i sei giorni con tutte le loro ben note difficoltà: per dirne solo una, la creazione della luce e dei giorni prima di quella del sole e del cielo). È stato Rashì, il massimo commentatore ebraico della Bibbia e del Talmùd a sostenere, già nell’XI secolo che «la Scrittura non ci insegna niente sull’ordine cronologico della creazione» e inoltre che la ragione per il racconto della creazione non è la conoscenza dei fatti ma che «l’intero universo appartiene al Santo Benedetto». E anche se queste posizioni sono state qualche volta discusse, è chiaro per il mondo ebraico che il racconto delle origini del mondo ha soprattutto valore morale e fa parte dei quella sfera della “haggadà”, della narrazione, su cui è possibile la convivenza di posizioni contrapposte.
Come si vede, vi è largo spazio nell’ebraismo contemporaneo per posizioni divergenti. Pochi però, per fortuna, sembrano interessati a coinvolgere la Torah nella costruzione di teorie di filosofia naturale contrapposte alla scienza sperimentale, si tratti di “scienza del creazionismo” o di “disegno intelligente”.