Se i progressi della genetica molecolare hanno portato a manipolare il codice della vita sollevando dilemmi morali, una risposta è venuta con la nascita della bioetica. Ma l’impetuoso avanzare delle neuroscienze, capaci di leggere e alterare cervello e mente, non trova ancora una riflessione adeguata sulle loro applicazioni.
Come comportarsi se si scopre che un volontario, sottoposto a una risonanza magnetica funzionale per un esperimento di routine, manifesta una predisposizione all’aggressività? È lecito somministrare pillole che “cancellino” parte dei ricordi, seppure strazianti? I farmaci che potenziano le prestazioni cognitive vanno equiparati a una forma di doping, per cui andranno sanzionati gli studenti “positivi”, come accade per gli atleti? I farmaci psicoattivi possono determinare cambiamenti persistenti della personalità e, quindi, del vivere sociale? La conoscenza delle basi neuronali del comportamento, della personalità e della coscienza possono influenzare la nostra stessa idea della natura umana e del vivere in società? Sono quesiti che richiedono una risposta, perché tutto ciò che esprimono è già realtà o sta bussando alla porta. E la comunità scientifica è chiamata a confrontarsi con essi.
Ecco allora la neuroetica, un campo d’indagine più che una disciplina, come ancora preferiscono chiamarla i suoi fondatori, legato agli straordinari progressi delle scienze del cervello e al complesso delle loro implicazioni etiche, legali e sociali (Elsi nell’acronimo inglese).
Se nel mondo anglosassone ci si è già incamminati sulla strada di una ricerca di alto profilo (centri di ricerca sono attivi a Stanford, all’University of Pennsylvania e all’University of British Columbia; recentissima è l’istituzione di un istituto anche a Oxford), l’Italia, che pur vanta punte d’eccellenza nelle neuroscienze e nella scienze cognitive, non ha ancora messo a tema questi dilemmi che sempre più entrano nella vita quotidiana.
Se ne è cominciato a discutere in modo aperto e approfondito, in un proficuo dialogo tra scienziati e filosofi, al convegno “Neuroetica. Le scienze del cervello e il loro impatto sulla società”, svoltosi a Padova il 5 e 6 febbraio scorsi. Tra i partecipanti, Pietro Pietrini (Università di Pisa), Salvatore Aglioti e Alberto Oliverio (La Sapienza), Alberto Priori (Milano Statale) e Giuseppe Sartori (Padova) sul fronte dei neuro scienziati; Michele Di Francesco (San Raffaele Milano) Mario De Caro (Roma Tre), Adriano Pessina (Università Cattolica), Laura Boella (Milano Statale) e Antonio Da Re (Padova) sul fronte filosofico.
Uno dei temi più caldi è stato quello del libero arbitrio. È recente un esperimento che ricalca i celebri studi condotti negli anni ’80 da Benjamin Libet sul ritardo con cui compare la consapevolezza di scelte di movimento rispetto all’inizio dell’azione nel cervello. Ricerche controverse, si è detto a lungo: quella che si registra non è la decisione in quanto tale, ma un’attività preparatoria. Ma John-Dylan Haynes, uno dei pionieri della lettura del pensiero, con il suo gruppo del Max Planck Institute, ha messo a punto un test che vorrebbe chiudere la partita. Pubblicato sulla rivista «Nature Neuroscience», l’articolo ha messo 14 volontari dentro una macchina per la risonanza magnetica funzionale chiedendo loro di scegliere, pensandoci con calma, se schiacciare un bottone con un dito o con un altro. Risultato: i ricercatori sono in grado di predire tra i sette e i dieci secondi prima quale sarà l’opzione del soggetto.
Nessun magia, ma molta sofisticata tecnologia. Basta far compiere prove preliminari registrando gli schemi di attivazione neuronale associati a ogni comportamento che, in seguito, un software adeguatamente “istruito” riconoscerà durante l’esperimento. La precisione per ora è del 60%. Ciò che però conta per il libero arbitrio è che la predizione giunga prima che i volontari siano consapevoli della propria decisione, il cui momento è valutato sulla base dei resoconti diretti e con un altro apparecchio che ingloba un cronometro. In particolare, l’attivazione cerebrale precedente la consapevolezza si muoverebbe dalla corteccia frontopolare – sede della pianificazione di alto livello – alla corteccia parietale – zona di integrazione sensoriale. «Non c’è molto spazio per la libertà se il risultato della scelta è ampiamente guidato dall’attività inconscia del cervello ben prima di avere la sensazione di prendere una decisione», spiega Haynes.
Le prime obiezioni si sono appuntate sulla semplicità eccessiva del compito: la vita reale ci mette di fronte ad alternative assai più complesse. Il libero arbitrio non implica comunque la consapevolezza “istantanea”, misurata con strumenti sofisticati. Esso ha invece a che fare con l’autodeterminazione (il controllo degli agenti sui propri atti) e con la possibilità di fare altrimenti. Abbiamo mangiato il gelato, ma avremmo potuto non farlo: non c’è una catena di cause fisiche che ci ha obbligato a quella scelta. Abbiamo preferito B ad A, ma avremmo potuto preferire A a B. Tuttavia, la disputa è tutt’altro che esaurita. E la neuroetica ha pane per i suoi denti italiani, che a Padova sono cominciati a spuntare.