Ci lavorano ormai da qualche anno e ora l’ulteriore pubblicazione sul prestigioso Proceedings of the National Academy of Sciences USA apporta maggior consistenza alle loro tesi circa l’estinzione dei dinosauri. Stiamo parlando del gruppo di geologi guidato da Claire Belcher alla Royal Holloway University di Londra che ritengono di avere prove sufficienti per dimostrare che la responsabilità della repentina scomparsa dei grandi rettili alla fine del Cretaceo non sia stata determinata dalla radiazione termica derivata dall’impatto di un meteorite con la Terra.



Negli anni novanta del secolo scorso era stata la localizzazione della “impronta” di quella tremenda collisione avvenuta 65 milioni di anni fa – e visibile nei 180 chilometri del cratere Chicxulub, nella penisola messicana dello Yucatan – ad avvalorare l’ipotesi di una enorme vampata di calore, fino ai mille gradi centigradi, che avrebbe incendiato le foreste e letteralmente bruciato gli organismi viventi terrestri. Tra il 60 e l’80% delle specie allora presenti sulla superficie del Pianeta sarebbero state vittime di tale evento traumatico, divenuto ormai anche nell’immaginario collettivo un simbolo delle possibilità catastrofiche che il cammino dei viventi può incontrare nella sua storia evolutiva.



La scoperta di uno strato di fuliggine presente nelle rocce risalenti a quel periodo era stata subito interpretata come documentazione dell’incendio colossale che avrebbe infiammato il mondo. Ma la Belcher non era convinta e si era messa ad analizzare più attentamente le rocce databili al confine tra il Cretaceo e il Terziario, cioè quelle pre e post dinosauri. C’erano sì delle evidenze di carbone che in genere si ritenevano prodotte dalla combustione di vegetali; ma erano troppo deboli e lei era più propensa a ritenere che quegli strati di fuliggine testimoniassero la combustione di idrocarburi.



Utilizzando tecniche di analisi basate sulla gas cromatografia, i geologi di Londra hanno evidenziato le tracce chimiche  di 21 diversi idrocarburi policiclici aromatici (Polycyclic Aromatic Hydrocarbons, PAH) che non corrispondono alla composizione tipica prodotta dalla combustione di vegetali quanto piuttosto da quello di gas e petrolio. E ciò in differenti zone rocciose nel continente nord americano, dove erano stati rilevati limitati quantitative di carbone vegetale e abbondanti resti di piante non bruciate; un segno evidente del ruolo non determinante dell’incendio nel fenomeno dell’estinzione cretacea.

Ciò non significa che il meteorite sia innocente e che sull’esistenza delle forme di vita non abbiano inciso in modo rilevante il suo impatto infuocato, il buio e freddo che si è successivamente diffuso e la quantità di prodotti tossici derivanti dalla vaporizzazione degli idrocarburi. Indica solo che probabilmente va rivisto lo scenario dell’incendio globale.

Restano comunque ancora da capire alcuni aspetti, che impegneranno la Belcher e i suoi nelle prossime ricerche. Bisogna comprendere come si è prodotta tanta fuliggine da oscurare il cielo e produrre un inverno prolungato e micidiale. E c’è da valutare se gli idrocarburi presenti all’epoca in prossimità della superficie nord americana erano in quantitativo sufficiente ad alimentare la combustione ipotizzata; anche se gli autori della ricerca fanno notare che il luogo dell’impatto è molto vicino alla riserva petrolifera nota come Cantarell Complex , una delle più grandi del pianeta.

Chi certamente non resterà deluso da queste scoperte sono gli scrittori di fantascienza, che potranno lanciarsi in nuovi racconti e nuove sceneggiature.