L’evoluzione è cieca e casuale? Un tempo sembrava così: oggi molte novità ci fanno considerare questo come un pensiero obsoleto. In realtà bisogna parlare di sviluppo della vita sulla terra, tenendo ben presenti due fattori: primo, che non c’è contraddizione tra un’analisi scientifica del mondo e una visione religiosa; secondo che ormai è chiaro come certi pregiudizi debbano ormai cadere, tra cui il primo è quello che tutto nella natura è caso e lotta per la sopravvivenza. Il pensiero di Darwin nacque dalla costatazione delle somiglianze e delle differenze tra le specie di animali – tartarughe, struzzi – nei Paesi del sud America da lui visitati con la nave Beagle; ciò lo portò a pensare che le diverse specie fossero scaturite non da creazioni separate, ma da una “trasmutazione” (così la chiamava) dovuta ad un influsso di ambienti diversi. E fin qui va il preciso appunto di un pioniere dell’osservazione naturalistica. Fu leggendo i lavori sulla crisi dovuta alla presunta sovrappopolazione scritti dal contemporaneo Thomas Malthus che Darwin trasse l’idea che questa “trasmutazione” fosse dovuta ad una lotta per la sopravvivenza del più adatto, in cui l’ambiente non aveva un ruolo di indurre la “transmutazione”, ma di selezionare i soggetti che avevano la “transmutazione” più adatta per vivere in esso.
Ma davvero sulla terra tutto è lotta? Davvero tutto, compreso i popoli e le stesse persone sono imprescindibilmente inserite in un clima di antagonismo reciproco, da cui “è naturale” che nascano solo rapporti di forza?
La stessa genetica, spiega la biologa Mary Esteller sulla rivista Lancet del dicembre 2008, oggi ci fa fare un passo avanti per poter rispondere. Infatti finora si supponeva che il DNA fosse il codice nel quale c’è scritto tutto, ma proprio tutto, della nostra storia, del nostro carattere e del nostro fisico; oggi si sa invece che il DNA è una specie di alfabeto, che ogni cellula e addirittura ogni specie vivente usa a modo suo, pur essendo il DNA uguale tra cellule diverse e molto simile tra specie diverse. Il DNA è come le ventuno lettere dell’alfabeto: se le usa un poeta fa la Divina Commedia, se le usa un professore fa un articolo scientifico: e quale è lo strumento che fa diverso il poeta dal professore? Dei particolari regolatori del linguaggio genetico, cioè delle molecole che fanno zittire alcuni geni e fanno parlare altri, in modo differente tra cellula e cellula e tra specie e specie. E su questo influisce l’ambiente in cui la cellula si sviluppa sin dal concepimento e in cui si sviluppa negli anni l’individuo. Ormai usiamo dei geni, per esempio, che 500 anni fa non usavamo; infatti la statura media dell’individuo, per l’influsso dell’ambiente è aumentata di molto proprio perché aria, acqua e cibo mutati hanno fatto smascherare dei geni che prima “dormivano”. E questi geni non tornano a dormire nella generazione successiva, ma restano attivi.
Ma l’ambiente modifica anche l’espressione dei geni dei bambini che sono stati poco nutriti prima di nascere e li farà predisporre a certe malattie da grandi. E talvolta queste malattie sono ereditate.
Già: oggi sappiamo che possiamo ereditare non solo caratteri congeniti, cioè presenti nel DNA al momento del concepimento, ma anche caratteri acquisiti per via dell’influsso ambientale sul DNA durante la vita.
Si tratta di una nuova branca della biologia detta epigenetica, che tratta dell’influsso dell’ambiente sul patrimonio genetico. Mary Esteller scrive: «Noi non siamo i nostri geni. I geni sono solo una parte della vicenda. Non possiamo prendercela solo coi geni per il nostro comportamento o per la nostra suscettibilità alle malattie». E continua spiegando che questo si vede bene nei gemelli monozigoti che svilupperanno malattie genetiche in epoche diverse pur avendo lo stesso corredo di DNA, e anche dal fatto che «uno dei risultati più sorprendenti della comparazione dei genomi di varie specie animali è quanto simili essi siano. Il genoma del topo non differisce molto da quello dell’uomo. Come allora possiamo spiegare le differenze?». Susannah Vermuza sulla rivista Genome del 2003 spiega che «la ricerca mostra con evidenza che in natura avviene l’eredità di caratteristiche acquisite» e Eva Jablonka nsieme a Marion J. Lamb nel volume Evolution in Four Dimentions (MIT Press, 2005) spiegano che questa ereditarietà dei caratteri acquisiti avviene per via di azioni epigenetiche, cioè non per mutazioni del DNA, ma per un silenziamento di alcuni geni indotto dall’ambiente. Questo spiega anche perché nonostante i due animali abbiano DNA molto simili, il topo abbia un aspetto molto diverso dallo scimpanzé: gli stessi geni sono presenti in entrambi gli animali, ma le cellule del topo ne usano alcuni, quelle dello scimpanzé altri.
Dunque l’obiezione di chi dice che «l’uomo è strettamente imparentato alla scimmia perché il DNA è molto simile» trova facile risposta nel fatto che certamente non è simile ciò che regola il DNA.
Non che tra uomo e scimmia le differenze siano solo fisiche, ma certamente anche la parentela fisica non è così stretta come sembrerebbe. Sul Sunday Times del luglio 2008, Steve Jones, professore di genetica all’University College di Londra spiegava così: «C’è sempre maggiore evidenza che fattori ambientali come la dieta o lo stress possono influenzare l’organismo ed essere trasmessi alla prole senza mutazioni del DNA», ma mutandone l’espressione dei geni (oltretutto questo mette anche in allarme sulle proprie abitudini di vita e alimentari, che possono portare alterazioni dell’espressione del DNA trasmissibili ai figli). Michael Skinner, direttore del Center for Reproductive Biology alla Washington State University descrisse su Science del 2005 che esponendo topi ad un particolare insetticida, si provocava una diminuzione degli spermatozoi e contemporaneamente un silenziamento di parti del DNA per l’azione dei suddetti gruppi metilici; ma soprattutto mostrò che l’effetto di questo contatto con la sostanza tossica avvenuta in una generazione, durava per almeno quattro generazioni successive.
Appare allora evidente l’effetto dell’ambiente sull’evoluzione, non più solo come selezionatore di mutazioni avvenute per caso, ma anche come induttore di cambiamenti genetici ereditabili. Eva Jablonka e Marion J. Lamb piegano che «Ogni singola mutazione è casuale, ma la risposta del genoma – l’aumentata velocità di mutazione – può essere adattativa, cioè influenzata dall’ambiente». Questo rende ragione della sopravvivenza di individui a cambiamenti ambientali bruschi e violenti, ma anche improvvisi. Insomma, spiegano che «alcune mutazioni ereditarie sono dovute a istruzione più che a selezione».
Perché è importante dal punto di vista bioetico questa nuova pagina della moderna biologia? Perché è rilevante umanamente riscontrare che l’ambiente non è solo un selezionatore, ma anche un induttore di cambiamenti ereditabili? Il chimico senese Enzo Tiezzi, sulle orme del premio Nobel Ilya Prigogine, nel suo “Steps Towards an Evolutionary Physics” (WIT Press 2006), scrive che «l’avventura dell’evoluzione biologica è segnata da eventi-possibilità e eventi-scelta. È un’avventura stocastica, dal greco stokazomai, che significa, “mirare con la freccia al centro del bersaglio”». Infatti le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell’arciere. E continua «il sistema combina la possibilità con la selezione. (…) Gli ecosistemi si evolvono stocasticamente per co-evoluzione e auto-organizzazione», in cui l’ambiente ha la funzione di catalizzatore e organizzatore. Questo ci aiuta a rispondere alle domande che abbiamo posto prima: perché l’ereditarietà epigenetica è importante culturalmente? Perché mostra che l’evoluzione non è cieca. La teoria sull’evoluzione è stata partorita da teorie nate a contatto del pensiero malthusiano, secondo cui il mondo è una continua e cieca lotta per la sopravvivenza tra cambiamenti casuali; ed è nata non a caso nell’epoca Vittoriana, in cui l’Impero inglese cercava le basi filosofiche e scientifiche del suo diritto a conquistare e governare il mondo di cui doveva dimostrare di essere “il frutto migliore e più adatto”;l’evoluzione mostra invece oggi il suo “volto umano”: un’armonica copresenza di tanti fattori, tutti cooperanti fra loro per evitare il disordine. Si mettono insomma in discussione lotta e violenza come motori del mondo.