Dal mondo della ricerca periodicamente arrivano notizie di esperimenti di teletrasporto e sono notizie che non hanno difficoltà ad essere “teletrasportate” in prima pagina di quotidiani e telegiornali. Anche se poi, scendendo nei dettagli, l’apparato sperimentale delude un po’ gli appassionati di questi argomenti, come nel caso della notizia diffusa qualche giorno fa dai laboratori di fisica del Maryland, perché non si vedono oggetti, né tanto meno persone, scomparire in un luogo e riapparire in un altro.



Quando parliamo di teletrasporto quindi, stiamo viaggiando esclusivamente nel regno della fantascienza oppure possiamo fondarci su qualche base scientifica? L’abbiamo chiesto a Tito F. Arecchi, già presidente dell’Istituto Nazionale di Ottica di Firenze e uno dei più attenti studiosi di questo, come di altri temi oltre le frontiere della fisica classica.



Di quale tipo di teletrasporto si parla?

Se pensiamo a situazioni come quelle rappresentate negli episodi di Star Trek, dove si riesce a trasportare a distanza un’intera persona, o comunque un essere macroscopico, allora siamo su un piano fantascientifico. Ma finché si tratta di trasmettere dei dati microscopici in un certo stato quantistico, allora questo è un tipo di situazione che può essere prodotta in un laboratorio di fisica.

È il caso dell’esperimento recentemente condotto dai ricercatori americani e riportato nella rivista Science?

In quel caso si è partiti da un atomo di Itterbio, confinato a bassa temperatura dentro un contenitore e in uno stato “intrecciato” (entangled), cioè l’atomo si trova tra due possibili stati quantistici ma non è in nessuno dei due bensì in una loro particolare combinazione. Oggi in fisica si parla molto di entanglement, ma vorrei ricordare che una simile configurazione era stata anticipata come puro argomento concettuale da Erwin Schroedinger, uno dei padri storici della meccanica quantistica, col celebre paradosso del gatto: se ho una scatola chiusa contenente un gatto, non so se il gatto è vivo o morto ma dal punto di vista quantistico non è né vivo né morto, la sua condizione è data da una sovrapposizione delle due possibilità e queste sono entrambe visualizzabili con qualche forma di interferenza.



Ma torniamo al nostro atomo entangled. La sua risorsa informativa, utile per il calcolo quantistico, emerge localmente e andrebbe consumata sul posto. La novità di questo esperimento è che la proprietà quantistica viene trasferita dall’atomo a un fascio di luce coerente che la trasporta a distanza di qualche metro per poi riammetterla in un’altra cella dove c’è un altro atomo di Itterbio in condizioni normali che diventa “intrecciato”. In sintesi, la proprietà di entanglement del primo atomo viene teletrasferita al secondo, servendosi come messaggero di un fascio di luce che non sta trasportando informazione classica, come quando facciamo una telefonata, bensì trasferisce quel particolare stato quantistico.

Qual è la reale portata di questi ultimi esperimenti?

Va detto che la scoperta dello stato entangled degli atomi ha effettivamente rivoluzionato il nostro approccio alla meccanica quantistica, ha ampliato la nostra comprensione del microcosmo, rendendo realtà di laboratorio, oggetto di effettiva computazione ed elaborazione matematica, ciò che era solo oggetto di racconti fantascientifici.

D’altra parte anche la teleportation già esisteva, almeno come trasmissione di stati quantistici “normali”, cioè non intrecciati. La novità sta nell’aver abbinato le due cose, nell’averle, mi si passi la battuta, “intrecciate”. Si tratta però solo di un avanzamento che direi tecnico, senza una particolare portata concettuale.

Un avanzamento che tuttavia può avere delle conseguenze pratiche

Sì, questi progressi tecnici possono essere utilizzati nell’implementazione delle funzioni dei computer quantistici, che si stanno sempre più studiando e perfezionando e che prospettano enormi potenzialità di elaborazione.

Quali sono i prossimi prevedibili passi in queste ricerche?

Il problema dell’elaborazione quantistica è che deve essere fatta a più bit, cioè vengono elaborati quelli che noi chiamiamo q-bit (cioè quantum bit). Attualmente noi sappiamo manipolare in laboratorio fino a a5-6 q-bit mentre, per avere una tecnologia informatica competitiva, bisognerebbe poterne manipolare centinaia o migliaia. Quando si arriverà a quel traguardo, allora si potranno sviluppare programmi di crittografia molto sofisticati e potenti in grado, ad esempio, di accedere facilmente a tutti i tipi di codici segreti, come quelli del Bancomat e dei vari sistemi di protezione dei dati. Si comprende subito come la posta in gioco sia elevata.

Siamo allora più vicini alla realizzazione del computer quantistico?

Fare una profezia in proposito è almeno imprudente e io non vorrei impegnarmi in previsioni. Da un lato il passaggio dai pochi q-bit di oggi alle migliaia richieste può sembrare un’impresa disperata; ma, pensando alla storia della tecnologia, chi pensava realistico volare sui Boeing 747 dopo i primi decolli dei fratelli Wright?

Aggiungo però che oggi come oggi un computer quantistico sarebbe di utilità piuttosto limitata: si conoscono infatti solo un paio di situazioni nelle quali l’algoritmo quantistico può velocizzare il processo di calcolo matematico rispetto all’elaborazione classica. Un tipico esempio di queste situazioni è la fattorizzazione dei numeri primi, cioè la riduzione di numeri molto grandi ai loro fattori primi: un’operazione che si impara alle scuole medie per i numeri piccoli ma che richiede tempi di calcolo dell’ordine degli anni se si tratta di numeri di centinaia di cifre, come sono quelli usati nei codici dei Bancomat. Un computer quantistico risolverebbe il problema in pochi secondi.

Quindi per il momento si tratta di un gran bel gioco?

Se vuole, possiamo dire così. Per completezza vorrei citare anche una pista di ricerca che vede nella grande velocità della computazione quantistica un modello per i processi del pensiero umano; con l’idea cioè che la nostra mente sia come un computer quantistico. È una prospettiva che personalmente non condivido, per il semplice fatto che i nostri atti creativi sono derivati da intuizioni, quindi sono procedure non algoritmiche, che non potremo mai delegare a nessuna macchina di nessun tipo.