Per ora hanno inciso le iniziali della loro università, la S e la U della Stanford University; ma il sistema di scrittura ultrapiccola promette “grandi” cose. Ne sono convinti i giovani fisici del gruppo di Hari Manoharan che sono riusciti a miniaturizzare i caratteri di scrittura a livelli subatomici mai raggiunti finora, arrivando a 0,3 nanometri, cioè circa un terzo di miliardo di metro.
Si sono così inseriti in una storia iniziata nel 1959, quando il celebre fisico Richard Feynman, dopo aver aperto la strada alle ricerche sulle nanotecnologie, ha messo in palio un premio di mille dollari per chi fosse riuscito a ridurre di 25.000 volte il testo di una pagina di un normale libro; il che significava poter condensare l’intera Enciclopedia Britannica sulla punta di uno spillo. Ci sono voluti 25 anni per assegnare il premio, proprio a uno studente di Stanford, Tom Newman, che utilizzò un procedimento litografico per incidere la prima pagina di un romanzo di Dickens in dimensioni tali da richiedere un microscopio elettronico per essere letta. Cinque anni dopo è toccato ai ricercatori dell’Ibm battere il record, sistemando 35 singoli atomi di Xeno (un gas nobile collocato tra lo Iodio e il Cesio nella Tavola Periodica) in modo tale da comporre la sigla della multinazionale informatica.
Ora il gruppo di Manoharan, secondo quanto ha pubblicato sulla rivista Nature Nanotechnology, ha abbassato il primo record di quaranta volte e il secondo di quattro volte; e, manco a dirlo, la loro performance è finita subito su YouTube.
Uno dei vantaggi di questo gruppo rispetto ai predecessori è di aver potuto utilizzare un microscopio a effetto tunnel a scansione (STM): un sistema sviluppato negli anni ottanta che permette di ottenere immagini di superfici solide con risoluzione altissima, dell’ordine dei diametri atomici (0,2 nanometri), e di girare attorno ai singoli atomi. Grazie ad esso è stato possibile trascinare singole molecole di Monossido di Carbonio entro una sagoma prefissata su un chip di rame delle dimensioni di un’unghia. Sulla superficie del rame gli elettroni gli elettroni – col loro tipico comportamento dualistico, corpuscolare e insieme ondulatorio – rimbalzano sulle molecole un po’ come le onde di uno stagno rimbalzano sui sassi che affiorano; si vengono così a formare delle figure di interferenza che consentono di codificare le informazioni.
Questa operazione ha richiesto ai nanofisici americani di sviluppare una nuova tecnica di produzione degli ologrammi, detta olografia quantistica: in essa l’immagine tridimensionale non deriva dall’illuminazione tramite luce laser, come nei normali ologrammi, ma dall’interazione con gli elettroni; l’immagine poi viene visualizzata dal microscopio STM. In un singolo ologramma quantistico possono essere immagazzinate molte immagini, create con diverse lunghezze d’onda, e possono poi essere lette separatamente come se fossero pagine di un libro da sfogliare.
Il grande vantaggio di questo nuovo metodo è che si amplia lo spazio disponibile per la memorizzazione dei dati. Sul chip di un computer il limite della codifica delle informazioni viene considerato il livello atomico: un bit per atomo, dopo di che non c’è più spazio. Qui invece siamo su scala subatomica e possiamo stipare un numero enorme di bit. Come ha dichiarato a Nature lo stesso Manoharan, riecheggiando la famosa battuta di Feynman: «laggiù in fondo c’è più spazio di quanto potessimo immaginare».