Cosa fa di un cervello un cervello umano? È naturale che una domanda così ingombrante non possa ammettere una risposta sperimentale diretta, ma, se la riformuliamo concentrandoci sul linguaggio, si aprono vie inaspettate: cosa fa di un cervello un cervello che parla? Il punto di partenza sono due scoperte fondamentali, maturate in seno alla linguistica teorica nella seconda metà del novecento e corroborate da recenti indagini sviluppate con le tecniche cosiddette di neuroimmagini. La prima è che tutte le lingue umane sono una variazione su un tema comune biologicamente determinato; la seconda è che la struttura del linguaggio umano non è condivisa con nessun altra specie vivente, in particolare nessun’altra specie vivente è in grado di combinare gli elementi minimi delle frasi, le parole, in modi infiniti e complessi (sintassi); nemmeno gli scimpanzé che pure condividono con noi almeno il 98% del genoma possiedono una sintassi lontanamente paragonabile, per non parlare dei delfini o di altre specie il cui linguaggio è comunque in grado di veicolare grandi quantità di informazione. Questo stato di cose esclude, tra l’altro, la possibilità di procedere nella ricerca attraverso modelli animali, come invece è avvenuto per altre capacità cognitive, come la visione. Dunque, per capire cosa fa di un cervello un cervello umano, non è illegittimo passare attraverso la ricerca dei meccanismi neuropsicologici fondamentali che permettono lo sviluppo del linguaggio umano, nella sua specificità.



Anche in questo campo di ricerca, come sempre accade nelle scienze empiriche, il metodo prevede che i fatti complessi siano decomposti nell’interazione di fatti più semplici. Nel caso del linguaggio, le tappe obbligatorie sono state percorse in alcuni passi fondamentali, anche se nessuno può dire a che punto siamo dalla comprensione del linguaggio né se a questa comprensione arriveremo mai. In ogni caso, le tecniche di neuroimmagine, che permettono di vedere l’attivazione di reti neuronali nel cervello tramite la misurazione del metabolismo, hanno spalancato finestre nemmeno immaginabili solo cinquant’anni fa. In una serie di esperimenti che ho condotto principalmente con il gruppo di ricerca dell’Università Vita-Salute San Raffaele del quale fanno parte Daniela Perani, Stefano Cappa e Marco Tettamanti, sono stati ottenuti due risultati. Il primo, in qualche senso preliminare, è stato quello di verificare che nel cervello veramente esistesse una rete dedicata alla sintassi; il secondo è stato invece quello di verificare che questa rete fosse sensibile a tutte e solo le regole comuni alle lingue umane. In questa seconda tappa del percorso, in particolare, si è proceduto modificando la sintassi di una lingua naturale in modo da farle contenere una regola anomala, una regola di quelle che non si trovano mai nelle lingue umane. Malgrado la comprensione di queste regolarità richieda complessi passaggi “algebrici” è tuttavia possibile avere un’idea sufficientemente completa di questo fenomeno ponendo attenzione su una caratteristica naturale delle lingue umane, così naturale che sfugge per lo più all’attenzione. Prendiamo ad esempio questa frase: se Giovanni passa questo esame, allora Andrea è molto felice. Ci sono due parole, se e allora, che sono in relazione tra di loro. In questo esempio tra queste due parole ci sono esattamente quattro parole, ma chiunque sa che questo fatto è puramente accidentale. Ci potrebbero benissimo essere meno o più parole e la frase potrebbe essere comunque grammaticale. Il nostro cervello semplicemente sa che in una lingua umana la distanza tra due parole in relazione tra loro non è mai rigida e a questa conoscenza corrisponde l’attivazione una rete neuronale dedicata. Quando invece, in una situazione sperimentale, si fanno apprendere regole “rigide” il cervello le riconosce e, pur riuscendo ad apprenderle, non attiva la stessa rete. Come dire che, se invento una regola per cui tra se e allora devono esserci esattamente – diciamo – quattro parole, il cervello si rifiuta di riconoscere questa regola come appartenente alle regole del linguaggio umano.



È a questo punto che si inserisce un esperimento in corso di pubblicazione sulla rivista Cortex – sempre eseguito con il gruppo di ricerca del San Raffaele – che descrivo brevemente. La domanda fondamentale che ci siamo posti era se queste regolarità sintattiche (vale a dire la non rigidità delle relazioni tra parole) dipendessero dal fatto di manipolare delle parole e o se qualsiasi struttura lineare dotata di simili regolarità producesse gli stessi effetti sul cervello. In altri termini, cosa succede se invece di parole mettiamo delle figure regolari ma senza senso e li dotiamo di una sintassi? Il gioco è più semplice di quanto si pensi. Le figure, derivate da un sistema di scrittura asiatico, potevano variare secondo tre parametri: la forma, la dimensione (grandi o piccoli) e il colore. Come siamo riusciti a mimare una grammatica con delle figure senza significato? Prendiamo una frase come Giovanni è stato scelto come il più bravo; il nome Giovanni e l’aggettivo bravo si accordano e questo accordo, ovviamente, non avviene ad una distanza fissa. Questo fenomeno di accordo può esser “mimato” con le figure variando due dei parametri scelti. Abbiamo associato una forma di un certo tipo a un nome e una di un altro tipo a un aggettivo e abbiamo fatto corrispondere l’accordo al fatto che queste due forme avessero lo stesso colore. Accanto a questa regola non rigida sono poi state costruite regole rigide, regole cioè dove lo stesso colore poteva capitare solo tra un numero fisso di forme, un po’ come se Giovanni dovesse per forza accordarsi con la settima parola che segue, dando luogo a strutture impossibili come Giovanni mi ha convinto che una canzone nuovo si suona sull’ukulele. Il risultato che abbiamo ottenuto è che il cervello, esattamente come per il caso delle parole, attiva la rete della sintassi anche quando vede sequenze di forme senza un senso ma dotate di una sintassi e, cosa ancor più importante, se questa sintassi non segue le regole delle lingue naturali la rete non si attiva.



Certamente questo esperimento non risponde alla domanda su cosa faccia di un cervello un cervello umano e nemmeno a cosa faccia di un cervello un cervello che parla, ma ora possiamo ipotizzare che la capacità tutta umana e solo umana di usare la sintassi precede in qualche senso la parola e costituisce probabilmente una delle basi che formano ad un livello più generale l’intelaiatura unica del cervello degli esseri umani. Come questo risultato possa essere spiegato in termini evolutivi rimane tutt’ora un mistero non risolto.