È di pochi giorni fa la notizia che in Inghilterra è stato presentato un modulo per sperimentare la realtà virtuale utilizzando tutti e cinque i nostri sensi. Una notizia che subito rimanda alla letteratura da fantascienza o a film come Matrix e eXistenz. Ma al di là di facili “viaggi mentali” c’è chi studia questi più complessi percorsi informatici ai fini scientifici, in questo caso psicologici. Raffaella Nori è ricercatrice psicologa presso l’università di Bologna dove tiene, tra l’altro, proprio un corso dedicato a queste nuove frontiere della ricerca



 

Dottoressa Nori, lei lavora nell’ambito della ricerca psicologica con l’ausilio di tecniche che utilizzano la realtà virtuale. In quale modo questo strumento può aiutare l’indagine psicologica?

All’università di Bologna, dove lavoro, tengo un insegnamento opzionale di applicazioni della realtà virtuale nell’ambito del corso di laurea magistrale di Psicologia Cognitiva applicata. In questo corso illustro ai miei studenti quali siano le possibili applicazioni che tale strumentazione può avere nell’ambito della psicologia da diversi punti di vista. Per quanto riguarda le mie ricerche mi occupo di indagare la rappresentazione mentale dello spazio, ossia in che modo possiamo sfruttare la realtà virtuale per creare degli ambienti più a dimensione di uomo.



In campo terapeutico esistono possibilità curative offerte dalla realtà virtuale?

Gli ambiti maggiormente indagati riguardano i disturbi di ansia post traumatica da stress oppure i  disturbi alimentari.

Negli Stati Uniti ad esempio ci sono dei protocolli che sono testati da gruppi di ricercatori attraverso i quali le persone cui viene diagnosticato un disturbo post traumatico da stress vengono sottoposte a sedute dove vengono immerse in sistemi di realtà virtuale con ambienti che simulano la condizione nella quale si sono venute a trovare nel momento in cui subirono il trauma. Aumentando di volta in volta il livello di coinvolgimento e di ansia derivata dall’ambiente riprodotto, quindi utilizzando un tipo di strategia che viene definita di “desensibilizzazione sistematica”, si controlla la situazione di stress del paziente. Un caso tipico di utilizzo di questa tecnica è l’utilizzo che se ne fa sulle persone affette da stress postraumatico legato ai tragici eventi dell’11 settembre. I pazienti vedono in principio le due torri, poi un aereo e, successivamente, l’impatto contro gli edifici. In momenti successivi vengono aggiunti i suoni e via dicendo fino ad arrivare ad un livello di coinvolgimento massimo



E perché una simile situazione, che apparentemente sembra da incubo, dovrebbe alleviare il livello di stress?

Lo allevia per un semplice motivo, insegna a gestirlo. Questo perché essendo il paziente in una condizione protetta viene aiutato a rendersi conto che a lui non può più succedere assolutamente niente. In questa situazione di incolumità, con l’aiuto ovviamente di uno psicoterapeuta, viene condotto fino al totale controllo della propria mente di fronte a immagini per lui altrimenti terribili. Il paziente insomma impara a gestire le proprie paure.

In poche parole è un’elaborazione del “classico” metodo consistente nel far rivivere situazioni traumatiche?

In un certo qual modo sì. Visto però che nella condizione classica non si sa mai quello che immagina il paziente o quello che rivive in questo caso ci sono maggiori vantaggi. Il terapeuta infatti vede esattamente le stesse immagini del paziente e quindi si rende maggiormente conto se questi ha superato o meno quella il trauma. Una volta appurato il superamento di un step può procedere nell’aggiungere elementi che aumentano il suo livello di ansia.

Anche in Italia c’è comunque un centro a Milano dove si è cominciato a lavorare su queste terapie. Uno dei massimi esponenti in materia è il professor Giovanni Riva.

Torniamo però al suo lavoro. Lei si occupa di rappresentazione dello spazio. Che cosa significa esattamente?

Io mi occupo del senso dell’orientamento spaziale. Noi lavoriamo insomma per riuscire a capire quali siano le variabili individuali e ambientali al fine di migliorare o peggiorare le modalità con le quali noi esseri umani ci muoviamo nell’ambiante. La parte applicativa riguarda più urbanisti ed architetti, che persone traumatizzate. Da un punto di vista terapeutico, infatti, per ora non si vedono particolari prospettive. Per essere più chiara noi siamo interessati a vedere come funziona la nostra mente, che strategie utilizza in generale il nostro cervello nel momento stesso in cui dobbiamo andare in un luogo piuttosto che in un altro. Il motivo per il quale alcuni soggetti sono più propensi a perdersi oppure no e quali strategie di viabilità, alla luce di questi risultati, conviene intraprendere.  

In Inghilterra è stato recentemente presentato un modello di realtà virtuale che consente di “coprire” tutti e cinque i nostri sensi. Che cosa ne pensa?

È una prospettiva potrebbe essere davvero interessante. A dir la verità esistono già sistemi simili. Fin dagli albori della realtà virtuale i primi vecchissimi sistemi tentavano già di realizzare immersioni di questo genere. Non so a che punto siano in Inghilterra e per il momento non mi sbilancio in giudizi di sorta. È comunque ovvio, come per tutti i prodotti tecnologici, che le possibilità offerte possono essere magnifiche ma anche pericolosissime. Dipende ovviamente dall’uso che se ne fa.

Un’ultima domanda dal sapore fantascientifico. È possibile “perdersi” nella realtà virtuale fino a non saper più distinguerla dal reale?

Per come sono i sistemi virtuali ad ora, per il livello di sofisticazione raggiunto fino ad oggi, non esiste ancora un sistema di realtà virtuale che coinvolga “davvero” tutti i sensi. Quindi la sensazione descritta nella domanda rimane per ora appannaggio dei film di fantascienza. Un livello per il quale riusciamo a distinguere il reale dal “virtuale” permane perfettamente. Per il futuro invece non posso escludere nulla.