Gli hanno attribuito un nome un po’ strano ma sentiremo molto parlare di lui se le ricerche degli ingegneri del MIT di Boston manterranno le prime promesse. È il grafene, una forma pura di carbonio nota da qualche anno e già applicata sperimentalmente per piccoli prototipi di apparecchiature elettroniche. Ora, con queste ultime scoperte, il suo impiego potrebbe permettere lo sviluppo di chip superveloci, molto più di quanto possano fare gli attuali chip di silicio e pronti a soddisfare le crescenti esigenze di telefoni cellulari e altri sistemi di comunicazione e trasmissione dati.



Le ricerche sono state condotte presso i Microsystems Technology Laboratories del dipartimento di Ingegneria elettrica e Computer Science della celebre università politecnica Americana e i loro risultati saranno pubblicati su un prossimo numero della rivista specializzata Electron Device Letters; nel frattempo, il leader del gruppo Tomás Palacios ne ha offerto una prima descrizione nel corso del recente meeting della American Physical Society.



Il chip di grafene progettato dal team di Palacios funziona come moltiplicatore di frequenza, cioè riceve un segnale elettromagnetico a una certa frequenza – ad esempio quello che determina la velocità di elaborazione di un computer – e restituisce in uscita un segnale con frequenza multipla: nel caso dell’esperimento del MIT si è trattato di frequenza doppia. I moltiplicatori di frequenza hanno un ampio utilizzo nella comunicazione elettronica, ma gli odierni sistemi richiedono molti componenti, generano indesiderati segnali di “rumore” che richiedono l’aggiunta di speciali filtri e consumano parecchio. Con i chip di grafene si potrebbe invece utilizzare un solo transistor e verrebbe prodotto, in modo altamente efficiente, un segnale pulito che non richiede alcun filtraggio. Inoltre, verrebbe superata anche la difficoltà legata alla generazione di frequenze molto alte, che attualmente non superano i 4 o 5 GHz (gigahertz, cioè miliardi di Hertz): con la tecnologia del grafene si dovrebbero raggiungere i 500 o anche i 1.000 GHz.



Che il grafene potesse aprire grandi prospettive era chiaro fin dalle sue prime uscite pubbliche, quando si è scoperto che era possibile realizzare strati di carbonio molti sottile, addirittura dello spessore di uno o due atomi; si parlava di materiali bi-dimensionali, quindi di membrane che, dal punto di vista chimico-fisico non potrebbero resistere e si disintegrerebbero facilmente al primo lieve riscaldamento. Invece, degli impercettibili moti oscillatori danno all’intera struttura la sua consistenza e la rendono resistente. Quando si parla di sottigliezza, qui si intende qualcosa al limite dell’immaginabile: una delle prime membrane di grafene prodotte in laboratorio aveva lo spessore di un terzo di nanometro, cioè di milionesimo di millimetro; tanto che secondo alcuni anche la parola nanotecnologia sarebbe inadeguata per definire il nuovo settore applicativo.

La stessa proprietà di ridursi in fogli sottili, distingue il grafene da altri materiali ai quali, per certi aspetti viene accostato, come il fullerene o i nano tubi di carbonio: anche in questi casi si tratta di strati di spessore monoatomico, ma la forma risultante è sferica o cilindrica; qui invece si tratta di superfici piane. Uno dei problemi principali da risolvere per l’applicazione del grafene è proprio quello di produrlo in quantità utili. Finora si è seguita la strada di “nastro adesivo”, che veniva appoggiato a un blocco di grafene per prelevarne lo strato sottile da applicare poi al wafer di silicio da cui ricavare i chip. Il vantaggio del gruppo del MIT è stato di mettere a punto un metodo per produrre direttamente il wafer di grafene che così è già pronto per le applicazioni elettroniche.

Ora siamo alla fase pre-industriale, ma secondo Palacios ci vorrà un anno o al massimo due per arrivare alla produzione e commercializzazione.

Intanto, in altri laboratori, si stanno sperimentando altri differenti impieghi di questo interessante materiale: sfruttando ad esempio la sua sottigliezza, e quindi la sua trasparenza, per realizzare nuovi tipi di schermi per le apparecchiature elettroniche portatili; o facendo leva sulle sue proprietà elettriche per migliorare l’efficienza delle celle fotovoltaiche.