Style=”text-align: justify;”>Negli ultimi anni non si è parlato più del buco dell’ozono, tanto da far pensare che sia trattato di una campagna ambientalista ben orchestrata e particolarmente suggestiva. Ora, la pubblicazione sul Journal of Atmospheric Chemistry and Physics dei risultati di un complesso programma di simulazioni computerizzate, propone una serie di analisi interessanti sulle quali vale la pena riflettere.



Lo studio in questione è stato condotto da un team internazionale guidato da Paul Newman del Goddard Space Flight Center della Nasa e comprendente chimici dell’atmosfera, fisici, matematici e informatici anche della John Hopkins University di Baltimora e della Agenzia olandese dell’ambiente di Bilthoven. È stato un lavoro imponente, che ha simulato “cosa sarebbe successo se” nel 1989 col protocollo di Montreal 193 nazioni non avessero deciso di mettere al bando i clorofluorocarburi (più noti come CFC) e altre sostanze chimiche ritenute responsabili della riduzione dello strato di ozono stratosferico.



Gli scienziati del gruppo di Newman hanno applicato un modello chimico-climatico al programma Geos (Goddard Earth Observing System), ottenendo un sistema che analizza la circolazione atmosferica considerando gli effetti combinati delle variazioni dell’energia solare, le reazioni chimiche in atmosfera, le variazioni di temperatura, i venti e altri fattori che incidono sul clima globale. Sono stati poi immaginati incrementi nelle emissioni di CFC dell’ordine del 3% annuo, un tasso che è circa la metà di quello che si verificava agli inizi degli anni settanta. Dopo di che i computer hanno iniziato a macinare dati facendo evolvere la Terra e la sua atmosfera dal 1975 al 2065.



L’esito della simulazione è impressionante ed è andato oltre le previsioni degli stessi autori, indicando una riduzione di ozono non solo sulle regioni polari, come era accaduto nella situazione “reale”, ma estesa all’intero pianeta. Entro il 2020 ci sarebbe stata una riduzione del 17% di tutto l’ozono atmosferico; nel 2040 la concentrazione globale sarebbe scesa ai livelli che prima interessavano il solo buco dell’ozono antartico. Nel 2050 i livelli di ozono stratosferico sarebbero collassati fin quasi a zero sui tropici. Infine, nel 2065, due terzi dell’ozono sarebbero spariti e l’intensità della radiazione ultravioletta sulla superficie terrestre sarebbe raddoppiata.

Naturalmente tutti i condizionali sono d’obbligo, perché non va dimenticato che stiamo parlando di una simulazione. «La costruzione di un modello matematico di questo tipo è estremamente complessa – dice Pietro Tundo, docente all’università di Venezia e Presidente del Consorzio INCA di chimica dell’ambiente – ed è difficile avere la garanzia che siano stati considerati tutti i fattori o che non sia data troppa importanza ad alcuni elementi trascurandone altri. Bisognerebbe entrare nei dettagli del modello per valutare bene la sua attendibilità. Da quanto ho letto, sarei comunque propenso a considerarla una valutazione realistica. Soprattutto sono realistiche le conseguenze che loro hanno tratto dall’analisi. Se valgono le loro previsioni di un allargamento del buco dell’ozono a tutto il pianeta, le conseguenze che ne derivano non sono più oggetto di modellistica matematica ma riguardano effetti ricavati in modo molto più corretto da fenomeni già accertati e testati».

La riduzione dello strato di ozono è dovuta alla presenza di CFC e sostanze similari che alterano un equilibrio naturale generato da reazioni fotochimiche che spezzano le molecole biatomiche di ossigeno per poi ricombinare i singoli atomi nelle molecole triatomiche tipiche dell’ozono. Le conseguenze dell’alterazione dei cicli naturali di ricambio dell’ozono, indeboliscono o annullano l’effetto di scudo protettivo che l’ozono ci offre verso le radiazioni solari ultraviolette: ne deriva un aumento di raggi UV che arrivano alla superficie terrestre con relativo incremento dei loro effetti negativi fino al livello del DNA degli esseri viventi, e per l’uomo il pericolo di forme tumorali della pelle.  Tundo è un po’ sorpreso dal non aver colto, negli studi in questione, sufficiente enfasi sugli effetti dannosi a livello delle specie vegetali: «bisogna considerare infatti che i raggi UV agiscono modificando strutturalmente il Dna il quale, se modificato troppo rapidamente e radicalmente, non è più in grado di rigenerarsi. Normalmente le piante, se esposte agli UV, riescono a rigenerarsi spontaneamente e a sopravvivere grazie a un meccanismo interno di autoriparazione: se non ci fosse questo, morirebbero in breve tempo proprio a causa degli UV. Se però la radiazione aumenta troppo, questo meccanismo naturale non è più sufficiente e il danno diventa irreparabile».

Le simulazioni della Nasa non sono comunque da considerare come un allarme o come il segnale che siamo ancora di fronte a un “problema ozono”. E, d’altra parte, il fatto che si parli meno di ozono corrisponde alla situazione di una effettiva ricucitura dello “buco” e a un ripristino degli equilibri secolari.

Tundo è più propenso a vederne il valore esemplificativo rispetto al modo di gestire i rapporti tra scienza e società «C’è da trattenere un insegnamento prezioso da questi gruppi di ricerca coordinati dalle grandi istituzioni americane come la NASA, o da università di eccellenza come la John Hopkins: se si progetta bene lo studio di un problema, si possono indurre i politici a prendere posizione e si può arrivare a decisioni anche radicali, come la sostituzione dei CFC nei sistemi refrigeranti e negli spray. La vedo quindi come indicazione di un modello da perseguire nei rapporti tra scienza e ambiente, tra scienza e società, tra scienza e salute». 

Una lezione che può servire per affrontare gli altri aspetti importanti della chimica dell’atmosfera che ancora non conosciamo e che richiedono più intensi studi. «Siamo ancora agli inizi della chimica dell’atmosfera:  dobbiamo studiare di più tutta la chimica del cloro e affrontare problemi come quelli dell’effetto dei VOC (Volatile Organic Compounds, Composti Organici Volatili), che attivano una chimica tutta particolare. Sono ricerche che non si possono fare solo in laboratorio ma richiedono piani ben costruiti e una notevole dose di investimenti».