Difficile mantenere la mente fredda quando si parla di riscaldamento globale. Ieri però al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano, nel convegno su questo tema organizzato dallo stesso ente in collaborazione con Mitsubishi Electric, ci sono quasi riusciti. Quasi, perché quando si è trattato di descrivere l’attività dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) e di commentare i vari scenari di previsione che additano le emissioni di gas serra (in primis l’anidride carbonica) prodotte dall’uomo come responsabili del riscaldamento del Pianeta, allora si sono sprigionate le scintille. Le ha scatenate Marco Mazzotti, professore al Politecnico di Zurigo e coordinatore per il rapporto speciale dell’IPCC su cattura e sequestro della CO2, il quale ha contestato vivacemente l’intervento di Fred Singer, uno degli ospiti di rilievo del convegno, fisico dell’atmosfera all’università della Virginia nonché organizzatore del NIpcc (Non-governmental International Panel on Climate Change) e autore del rapporto “La Natura, non l’Uomo, governa il clima” (21° Secolo, 2008) che già nel titolo evidenzia conclusioni contrarie a quelle dell’organismo dell’Onu. Tra l’altro, ironia della sorte, per essere stato supervisore anche di un report Ipcc, ha condiviso il Premio Nobel per la Pace con Al Gore e con altri 2000 scienziati.



Ebbene, cosa ha detto di così scandaloso Singer? Ha messo in discussione i modelli climatici che vanno per la maggiore sostenendo che la bontà di un modello non è dovuta solo alla sua correttezza matematica e alla capacità di fare tante previsioni ma alla possibilità di accordarsi con i dati derivanti dalle osservazioni. Il fisico americano non ha negato il riscaldamento della Terra né il fatto che ci siano anche contributi derivanti dalle attività umane all’aumento di CO2 in atmosfera: ha però sollevato dubbi sui risultati dei modelli dell’Ipcc che vogliono vedere una correlazione stretta ed esclusiva tra aumento dei gas serra e clima e che attribuiscono un peso e un ruolo prevalente al contributo antropico rispetto agli altri fattori di tipo naturale; tra il 1940 e il 1975, ad esempio, la temperatura è diminuita mentre l’anidride carbonica aumentava. Ora, se il modello dell’effetto della CO2 di origine antropica fosse corretto, le osservazioni dovrebbero mostrare aumenti di temperatura in funzione dell’altezza a livello della troposfera tropicale. Invece, come Singer e altri autori hanno mostrato due anni fa in un articolo sull’International Journal of Climatology, non è stato possibile trovare alcuna evidenza sperimentale di ciò dalle misure con sonde in palloni aerostatici e satelliti; questo disaccordo tra le “impronte digitali” della CO“osservate” e quelle “calcolate” basterebbe a invalidare il modello. La replica di Mazzotti è stata molto dura e si è basata su un ulteriore articolo della stessa rivista che smentisce il precedente. Ma la controversia non accenna ad attenuarsi poiché lo scienziato del NIpcc ha già pronta la controreplica e preannuncia un prossimo articolo di critica alle critiche.



È solo un’eco della situazione di disputa accesa che facilmente si viene a creare in materia di scienze ambientali quando dalla pura fase descrittiva e analitica, della quale la prima parte del convegno è stata una testimonianza esemplare ed efficace, si passa all’interpretazione e alle previsioni. Il problema sono proprio i modelli e il loro utilizzo, che dipende, oltre che dalla bontà dell’algoritmo matematico applicato, da una serie di scelte che si compiono nel farlo “girare” nei supercomputer: si deve decidere quali parametri considerare e quali trascurare, quale grado di dettaglio scegliere e fino a che punto spingere la semplificazione. D’altra parte, come ha sottolineato Antonio Navarra presidente del Centro Euro Mediterraneo per i cambiamenti Climatici, il clima è il sistema più complesso che si conosca e più di tanto non si può semplificare; inoltre è un sistema necessariamente globale, dove sono continue le interconnessioni tra fenomeni e situazioni apparentemente lontane; non si possono neppure fare esperimenti, come ogni buon scienziato desidererebbe, spostando e modificando gli elementi naturali a nostro piacere. Non resta quindi che la strada della simulazione e della sperimentazione virtuale: «i modelli – dice Navarra – sono per i climatologi come il telescopio spaziale per gli astrofisici o l’acceleratore LHC per i fisici: sono strumenti per scandagliare la realtà fino ai limiti estremi».



Ma qui si innesca un tema molto ampio, che il dibattito di Milano ha evidenziato in tutta la sua problematicità: il ricorso alla modellistica computazionale è un’operazione molto delicata ed è sempre in agguato il rischio di allontanarsi dalla realtà e di scambiare per definitive conclusioni che sono solo parziali e incomplete per carenza di dati. A volte poi i modelli spiazzano gli stessi autori, che si trovano davanti a previsioni inattese: come quella che vedrebbe addirittura un risvolto positivo nell’aumento della CO2 in atmosfera dato che se ne potrebbe dedurre una diminuzione dei cicloni tropicali; o quella delle simulazioni econometriche che vedrebbero un beneficio per tutta l’economia nazionale dall’affermarsi di un clima più caldo.

Su un punto sembra però che ci sia un accordo tra gli scienziati: il clima ha bisogno di maggiore studio e di approfondimento di quanto emerge dai nuovi dati. Bisogna capire meglio cosa significano i dati che sembrano sempre più insistentemente indicare una diminuzione della temperatura media negli ultimi anni; o cosa indica la scoperta di un gran numero di laghi sotterranei sotto i ghiacciai antartici e come incide sulla loro stabilità; e ancora, qual è il ruolo dell’attività solare nel modulare i livelli di nuvolosità e quindi nel controllare il clima planetario.

Se il dibattito quindi è bene che resti equilibrato e freddo, sarà meglio per tutti se l’attività di ricerca subirà un riscaldamento.

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