Se siete discretamente appassionati di calcio e vi dicono: «Nessuna squadra ha mai conquistato il campionato di calcio inglese vincendo più partite in casa che in trasferta», potreste rimanere spiazzati e pensare che in realtà dovrebbe essere vero il contrario: di solito si vincono più gare sul campo amico. Ma se vi dicessero: «Come ha spiegato Mourinho, nessuna squadra ha mai conquistato il campionato di calcio inglese vincendo più partite in casa che in trasferta», forse comincereste a dubitare delle vostre precedenti convinzioni. Se poi non foste esperti dello sport nazionale, probabilmente tendereste a credere al guru calcistico del momento. In realtà, l’affermazione è palesemente falsa, ma serve a fare capire un interessante (e anche inquietante) effetto che è stato constatato da un gruppo di ricercatori americani e ha dato il la a una valutazione critica delle applicazioni indiscriminate delle neuroscienze, la “moda” scientifica del momento.



Prendete alcune spiegazioni psicologiche del comportamento umano, mescolatene di vere e di false. Poi aggiungete qualche immagine di scansione cerebrale (quelle “foto” colorate dell’encefalo che ormai ci sono familiari, sebbene indecifrabili) e chiedete di giudicare le tesi presentate. In media, persone comuni e studenti universitari di neuroscienze tendono a ritenere più credibili le spiegazioni false quando sono accompagnate da referti di risonanze magnetiche funzionali, che fungono da “marchio” di scientificità, e come tali vengono accolte in modo acritico e automatico. Non si lasciano ingannare soltanto i cultori professionali della materia, interpellati come terzo gruppo di controllo nello studio pubblicato sul “Journal of Cognitive Science”.

C’è motivo di parlare di una pericolosa “fissazione” per tutto ciò che ha a che fare con le neuroscienze? Sì, secondo Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, autori di uno stimolante pamphlet (“Neuro-mania”, il Mulino), il cui sottotitolo (“Il cervello non spiega chi siamo”) promette però più di quanto mantenga. Gli autori, rispettivamente psicologo cognitivo all’Università di Venezia e neuropsicologo (sic) all’Università di Padova, sostengono che la proliferazione di sotto-discipline (dalla neuroeconomia alla neuropolitica, dalla neuroestetica alla neuroteologia) non è indice di un progresso delle nostre conoscenze in quegli ambiti. Molto – spiegano – era già noto e ora viene presentato in forma nuova (e accattivante), perché si diffonde la convinzione che sia ormai possibile individuare le basi materiali della singole funzioni mentali, grazie all’osservazione diretta di ciò che avviene nel cervello.

In realtà, il cosiddetto imaging cerebrale non è affatto un’istantanea del nostro encefalo in azione, bensì un’elaborazione assai sofisticata, che evidenzia correlazioni tra l’attivazione di specifiche aree e il compito cui sono sottoposti i volontari che partecipano agli esperimenti. La spiegazione causale (questo provoca quello), quindi, risulta in molti casi problematica (come sottolineano Legrenzi e Umiltà, affiancati nell’ultimo periodo da altri studi che stanno mettendo a rumore il mondo accademico).

In definitiva, se è corretto mettere in guardia da un eccesso di riduzionismo materialistico e da un imperialismo delle scienze dure che (fisica in testa) pretendono di dettare regole, metodo e criteri di accettabilità in nome della loro “esattezza” e del loro successo pratico, non bisogna nemmeno demonizzare la ricerca che sul cervello e sul suo funzionamento sta dando molte informazioni preziose e ben consolidate. E, soprattutto, si dovrebbe presentare una vera difesa della mente, a partire da una sua definizione più precisa. Qual è lo specifico che gli psicologi vogliono preservare? Solo un’utile finzione (quella dei processi cognitivi superiori che andrebbero studiati a un livello più alto rispetto ai loro costituenti di base, cioè i neuroni), oppure una realtà non totalmente riconducibile all’attività elettro-chimica del sistema nervoso? È da questa alternativa che passa una persuasiva argomentazione del “perché il cervello non spiega tutto”.

Infine, una nota sull’errato riferimento alle posizione della Chiesa sul fine vita. Ai pronunciamenti recenti i due autori imputano una sorta di biologismo, quasi che i vescovi avessero adottato una prospettiva scientista che dà più valore al cervello che alla mente. Niente di tutto questo, com’è ovvio. La difesa della vita, dal concepimento alla conclusione naturale, nulla ha a che fare con le neuroscienze, proviene da magistero e tradizione di lunga data, non condizionati dai dati sperimentali, piuttosto radicati nella rivelazione e nel realismo filosofico, che vogliono tutelare la persona, dato originario, non scomponibile in corpo e anima.