Il Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologia (ICGEB) ha messo a punto un vaccino che induce nell’organismo una risposta immunitaria per combattere un tumore, il linfoma Non-Hodgkins, che colpisce alcuni tipi globuli bianchi, i “linfociti B”. Si tratta di un vaccino curativo da somministrare ai pazienti già colpiti dalla malattia e non di un vaccino preventivo, come la maggior parte degli attuali vaccini in commercio. Ora, dopo anni di ricerche e grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Oncologia dei Trapianti dell’Università di Pisa, sta per iniziare la sperimentazione clinica direttamente sui pazienti.



Il progetto, che durerà complessivamente tre anni,è da poco stato approvato dall’Istituto Superiore di Sanità e riveste una particolare importanza poiché si tratta della prima sperimentazione clinica di un vaccino anti-tumorale a DNA, totalmente italiano, che viene realizzata interamente in Italia. Artefice del progetto e responsabile del Laboratorio di Immunologia Molecolare dell’ICGEB è Oscar Burrone. Lo abbiamo intervistato.



 

Come siete arrivati a sviluppare questo vaccino?

Siamo partiti con le nostre ricerche avendo in mente un obiettivo chiaro. Nel caso di questi particolari tumori è molto semplice identificare quali cellule andare a “colpire”. Infatti il linfoma alle cellule “B” è caratterizzato da una proteina che rende la superficie della cellula differente da tutte le altre. Questa proteina è proprio una parte dell’immunoglobulina che solitamente queste cellule esprimono sulla propria “pelle”. Dal momento che ogni singola cellula “B” è per natura differente dalle altre sulla superficie, caso più unico che raro nei gruppi cellulari, il tumore, che invece si riproduce sempre nella stessa forma, diviene facilmente riconoscibile e di conseguenza più facile da studiare.  



È questo il motivo per cui il vaccino può essere assunto solo da chi è già malato?

Sì, perché quello che si cerca di fare è di stimolare il sistema immunitario di modo che vada a reagire contro questa le specifiche cellule tumorali. Ovviamente per farlo queste cellule devono esserci così come dev’essere inquadrata la specifica forma tumorale che hanno assunto. Dopodiché si procede all’iniezione del vaccino fino a far diventare immunogenica la regione tumorale.

Cosa significa un “vaccino a base genetica”?

Il sistema immunitario reagisce di norma contro le proteine, e le proteine cellulari sono il prodotto dell’informazione contenuta nei geni (DNA+proteine). Quindi per indurre il sistema immunitario ad agire si può o prendere la proteina, analizzarla e sintetizzare un prodotto che attivi la risposta nel paziente o utilizzare il gene. In poche parole noi diamo al DNA delle cellule “B” la “formula” per indurre da sé una risposta immunitaria. L’efficacia dovrebbe essere assai più garantita. Ovviamente il vaccino va realizzato caso per caso a seconda del paziente e del tipo di linfoma da cui è affetto. Non ci sono mai tumori di questo tipo che presentino la stessa sequenza genetica infatti.

È una novità assoluta nell’ambito scientifico mondiale?

No, la novità è nella realizzazione totalmente nazionale. In realtà ci sono altre differenti strategie nella realizzazione di vaccini contro questo tipo di tumori, ma sono state prodotte all’estero. Sono comunque tutte ancora in fase di sperimentazione. Strategie simili alla nostra sono state realizzate in diversi paesi europei, primo fra tutti l’Inghilterra, con differenze importanti rispetto a noi dal punti di vista del “disegno” del vaccino. Per quanto riguarda il nostro primato esso consiste, come dicevo, nel fatto che il disegno, lo sviluppo e i test sono stati e verranno effettuati esclusivamente nel nostro paese. In pratica questo vaccino è un prodotto “made in Italy”. Nostri sono anche tutti i test condotti in fase preclinica.

In quanto tempo potremo vedere i risultati?

Noi abbiamo avuto circa un mese fa l’autorizzazione per questa sperimentazione da parte dell’Istituto Superiore della Sanità. In realtà l’approvazione l’ha ottenuta il professor Mario Petrini dell’Università di Pisa (Dipartimento di Ematologia “Santa Chiara”) e là potranno cominciare la sperimentazione clinica, ossia sui pazienti.

Si prevede di iniziare con le prime persone entro sei o al massimo otto mesi. Dopodiché ci sarà un periodo di qualche mese prima di poter avere le prime risposte e almeno sapere se quello che noi oggi prevediamo dal punto di vista dello stimolo del sistema immunitario del paziente avvenga o meno e a che livello. Una volta ottenute queste prime risposte, in caso di esito positivo bisognerà comunque attendere l’evoluzione normale della malattia dei pazienti, quindi almeno tre anni.

Perché è stato così lungo l’iter di approvazione della sperimentazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità?

In parte perché è il primo vaccino a DNA che viene approvato qui in Italia. Ovvero, noi eravamo nuovi a una cosa di questo tipo, ma anche l’Istituto stesso. Su simili studi, anche a livello mondiale, non c’è una grandissima conoscenza e confidenza con le procedure. Quindi c’è stata una lunga serie di chiarimenti fra il nostro centro di ricerca e l’Istituto circa la prassi e il metodo che avevamo intenzione di utilizzare.

Se la sperimentazione clinica avrà successo, possiamo dire che si inaugurerà l’era delle terapie personalizzate?

In questo caso è assolutamente così. Se ciò avrà successo la strategia sarà sempre quella di costruire per ciascun paziente il vaccino giusto. Vorrei precisare però una cosa: ultimamente sta diventando un po’ di moda parlare di terapie personalizzate a partire dal DNA. Ricordo che è sempre più auspicabile trovare terapie collettive. Questo per un semplice motivo, perché ogni terapia personale richiede molto più tempo, costi ed energie. In altri casi di tumore i cui marcatori cellulari sono molto più consimili fra di loro l’esito di un unico farmaco per la cura collettiva verrebbe salutato con assai maggior entusiasmo.