Quando si guarda un rullino di negativi fotografici è esperienza comune essere in grande difficoltà nel riconoscere i volti delle persone inquadrate. Personaggi famosissimi e noti a tutti in una stampa fotografica diventano volti misteriosi visti nella versione in negativo. Ma tutte le teorie scientifiche che sono state proposte per spiegare questa difficoltà non hanno mai resistito alla prova degli esperimenti. Così ad esempio, la colpa della difficoltà non è riconducibile alla diversa colorazione della pelle tra negativo e stampa o al fatto che il negativo rende difficile ricostruire la versione tridimensionale del volto. Un recente lavoro di Gilad, Meng e Sinha (gli ultimi due ricercatori del MIT, il primo del Weizmann Institute israeliano) sembra aver trovato una risposta a questo problema.
La prima cosa notata dai ricercatori del MIT è che, nelle foto dei volti, gli occhi sono sempre più scuri rispetto al resto della faccia e questo accade in ogni condizione di luce, sia che si tratti di un volto fotografato nella piena luce di mezzogiorno, con il Sole basso del tramonto o in una stanza illuminata da lampade fluorescenti. Di conseguenza in un negativo gli occhi sono sempre la zona più chiara e questo sembra mettere in estrema difficoltà il nostro sistema visivo. Per confermare tale teoria i tre ricercatori hanno creato delle immagini “chimera” cioè dei negativi fotografici in cui però la zona degli occhi è stata rielaborata perché torni ad essere quella più scura. La velocità nel riconoscimento di queste immagini chimera è risultata essere decisamente più elevata rispetto ai semplici negativi e conferma l’importanza che il sistema visivo attribuisce a queste informazioni di contrasto. Ciò che ci rende riconoscibili non è solo la forma del viso, del naso e altri particolari, ma le differenze di luminosità nel nostro volto. È l’ennesima conferma del fatto che il vedere umano si basa moltissimo sul contrasto delle immagini, tanto che la nostra capacità di discriminare piccole differenze di luminosità è ancora superiore a molta strumentazione.
Ma oltre ad aprire un’ulteriore porta sulla comprensione del meccanismo umano del vedere (e questa sarebbe di per se ragione sufficiente per svolgere questo lavoro) la ricerca potrebbe avere delle interessanti implicazioni pratiche, che gli autori stessi suggeriscono. In primo luogo comprendere meglio il meccanismo che conduce gli esseri umani alla loro grandissima abilità nel riconoscere i volti potrebbe servire ai programmatori per migliorare i software di riconoscimento facciale, che già ora sono molto utilizzati per ragioni di sicurezza, sia negli aeroporti come nei casinò dove devono individuare i giocatori professionisti. Recentemente anche Google si è scontrato con il problema del riconoscimento facciale, dato che nelle immagini di Street View (il servizio Google che oltre a mostrare le mappe delle città mostra anche le immagini a livello del terreno delle strade) ha dovuto rendere irriconoscibili tutti i volti. Il software, molto valido, non è però infallibile. Ha divertito molto il fatto che anche l’enorme volto di Bobby Sands dipinto su una strada di Belfast fosse stato distorto, essendo stato scambiato per un viso reale (dopo alcune segnalazioni Google, grazie all’intervento umano, ha mostrato di nuovo il volto). Sinha e i suoi colleghi fanno poi notare che l’importanza degli occhi nel riconoscimento dei volti potrebbe spiegare le difficoltà che gli autistici hanno nel riconoscere le persone, dato che molti esprimenti evidenziano che tali pazienti osservano più la bocca rispetto agli occhi delle persone che incontrano.
Certo è che questo interessante esperimento non fa che aumentare il valore che i nostri occhi hanno: oltre a essere lo specchio dell’anima possiamo affermare che sono anche il nostro principale segno distintivo, ciò che ci fa immediatamente riconoscere tra noi e che comunica immediatamente chi e cosa siamo: una canzone del cantautore Claudio Chieffo ripete, in maniera più poetica questi dati sperimentali, “perché dagli occhi si capisce quando la vita ricomincia”