Tra pochi giorni prenderà il via un convegno organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze intitolato Le piante transgeniche per la sicurezza alimentare nel contesto dello sviluppo (15-19 maggio) dedicato ai fatti – benefici e rischi – accertati e alle promesse delle biotecnologie agrarie per combattere fame e malnutrizione nei paesi in via di sviluppo.
Tra i benefici e le promesse, purtroppo, esiste un certo iato. Da una parte ci sono fatti innegabili che testimoniano il grande favore con cui le piante transgeniche sono state accolte in molti Paesi e in particolare dai contadini poveri: 12 dei 13 milioni di agricoltori che li usano a livello mondiale, cioè il 90%, sono appunto poveri. Questo semplice dato non è pensabile senza un reale beneficio per i coltivatori. Il detto «contadino, scarpe grosse e cervello fino» suggerisce che i contadini non fanno in genere scelte avventate. Chi vuole coltivare una nuova varietà che costa di più delle altre deve avere dei buoni motivi per farlo e i motivi più convincenti sono le prove eseguite su piccoli appezzamenti per paragonare la nuova varietà con quelle solitamente comprate o quelle propagate di anno in anno dal contadino stesso. Molto convincente si rivela anche lo sbirciare nel campo del vicino che, anche lui dopo le opportune prove, ha comprato la semente commerciale transgenica.
I benefici, diversi a seconda della coltura e del carattere ingegnerizzato (vedi tabella), spiegano perché i contadini sono disposti a pagare di più per queste sementi, ma non spiegano perché: a) siano pochi i caratteri in coltivazione (essenzialmente resistenza agli insetti, tolleranza agli erbicidi e resistenza a virus) e poche le colture (mais, soia, cotone colza, barbabietola e papaia); b) nella grande maggioranza sia stata la ricerca privata e non quella pubblica a creare questi prodotti.
Le domande sono entrambe lecite, perché il potenziale di questa tecnologia è molto grande e riconosciuto come particolarmente adatto a risolvere o almeno mitigare una serie di problemi alimentari e produttivi dei paesi in via di sviluppo e perché erano moltissime le sperimentazioni portate avanti da enti pubblici (anche in Italia prima del blocco imposto da Alemanno e Pecoraro).
Il punto cruciale della riunione vaticana, e della soluzione ai due enigmi, risiede nella regolamentazione. Quella attuale uccide la ricerca e, indirettamente, i potenziali utilizzatori, perché è eccessiva, costosa e non basata sulla scienza. Eccessiva perché non solo ci vogliono 5-7 anni per ottenere l’approvazione alla commercializzazione di un singolo prodotto, ma anche perché il livello di regolamentazione è sproporzionato rispetto ai rischi. Costosa perché richiede decine di milioni di dollari e, ovviamente, questo spiega perché solo le multinazionali riescano a sopportare costi così elevati. Non basata sulla scienza perché non tiene conto dell’evidenza scientifica accumulata sia con le piante convenzionali sia con oltre vent’anni di ricerche e 15 di coltivazioni commerciali di piante transgeniche su centinaia di milioni di ettari.
Un esempio di regolamentazione insensata? La cassava, una pianta che dà nutrimento a 800 milioni di persone, specialmente africani, è stata ingegnerizzata per migliorare la qualità nutrizionale con risultati sorprendenti (tre volte e mezzo più proteine delle normali varietà). Questa cassava transgenica non può e non potrà essere data ai contadini gratuitamente perché contiene faseolina, una proteina del fagiolo. Il motivo? La faseolina presenta il 54% di somiglianza alla conglicinina, una proteina della soia che provoca una reazione allergica in un quarto delle persone allergiche alla soia. La verità è però che nessuno ha mai evidenziato allergie alla faseolina, una proteina che viene comunque consumata ogni giorno da centinaia di milioni di persone che si cibano di fagioli, senza problemi. È però purtroppo impossibile dimostrare scientificamente che la faseolina non possa risultare allergica a nessun individuo, adesso o in futuro. Il 50% di somiglianza imposto dalla regolamentazione come limite sopra il quale bisogna etichettare il prodotto come potenzialmente allergenico risulta perciò arbitrario e insensato e di fatto rende impossibile l’introduzione di queste piante in Africa (provate voi a etichettare tutti i tuberi nei villaggi sperduti!), il continente che più di ogni altro potrebbe trarne beneficio. Ironia della sorte, star male o morire per una reazione allergica in Africa è un’ipotesi surreale per un continente dove morire per fame, malnutrizione, Aids o in guerra è pane quotidiano. Per questo la regolamentazione attuale uccide e uccide sul serio.
Un altro esempio è il Golden Rice, una varietà di riso che accumula beta-carotene, il composto arancione presente nelle carote che viene convertito in vitamina A una volta assunto dal corpo umano. La carenza di vitamina A è uno dei più gravi problemi nutrizionali nei paesi poveri e comporta un indebolimento del sistema immunitario (e quindi spesso la morte per malattie banali) e la cecità. Si calcola che a causa di questa carenza circa 2,5 milioni di bambini muoiano e fino a 500.000 diventino ciechi ogni anno. Nonostante la prima “versione” di questo riso sia stata prodotta più di 10 anni fa e nonostante non si riesca neanche ad immaginare un rischio sensato che l’introduzione di queste varietà di riso potrebbe creare, il golden rice, a motivo del lungo e costoso processo di approvazione peculiare per gli OGM, non è ancora arrivato nelle mani di coloro che potrebbero trarne il maggior beneficio: la vista e/o la vita. E si badi bene che questo riso è essenzialmente frutto della ricerca pubblica. La poca ricerca industriale coinvolta ne ha comunque permesso la cessione gratuita a tutti i contadini del terzo mondo con un reddito inferiore a 10.000 dollari annui.
C’è bisogno quindi di un’inversione di tendenza: dalla precauzione estrema eretta a principio (complici burocrazia e politica) occorre passare al realismo, basato sui principi dell’evidenza scientifica per la parte sperimentale, senza trascurare etica ed economia.
La riunione vaticana ha incontrato una certa opposizione non solo fuori della Chiesa ma anche in qualche ambiente cattolico. L’accusa o la diffidenza “interna” è in genere connessa con i paventati rischi di tipo economico. I piccoli coltivatori, si sostiene, saranno costretti a ricomprare di anno in anno le sementi dalle multinazionali e così saranno presto rovinati i contadini e perse le varietà tradizionali. Ma entrambi gli scenari non sono realistici, prima di tutto perché i contadini sono capaci di giudicare la convenienza (o meno) delle nuove varietà e poi perchè la regolamentazione uccide specialmente la ricerca pubblica (incapace di sostenere gli alti costi per l’approvazione) che metterebbe i frutti del proprio lavoro a disposizione dei contadini poveri senza richiedere alcuna royalty (es. cassava e Golden rice). Una regolamentazione più realista e quindi meno onerosa stimolerebbe di molto la ricerca pubblica e aumenterebbe anche il livello di concorrenza nel settore privato, con ovvi benefici per tutti.
Qualcuno potrà avanzare l’accusa di non aver parlato dei rischi delle piante transgeniche. Per quanto appaia strano, la stragrande maggioranza degli scienziati del settore sostiene che la transgenesi «non comporti di per sé rischi nuovi o più elevati rispetto alla modificazione di organismi con metodi più tradizionali» (cfr. petizione sottoscritta da oltre 3.000 scienziati del settore e 25 premi Nobel). Ma su questo ci sarebbe da scrivere un altro articolo.