La visione umana presenta continuamente aspetti che stupiscono i ricercatori ponendoli di fronte a nuove sfide. È ormai evidente a tutti che la visione è qualcosa che ha a che fare sia con la parte ottica del nostro occhio, con quel sensore che è la nostra retina, dove peraltro inizia anche l’analisi dell’immagine, sia con il cervello che completa l’elaborazione correggendo eventuali problemi legati alla parte ottica e aiutandoci a “vedere” davvero.



Un recente caso interessantissimo capitato al professor McCloskey della Johns Hopkins University di Baltimora ha permesso un ulteriore passo avanti nella comprensione di questo complesso meccanismo. Il professore si occupava di analisi del linguaggio e aveva svolto una lezione sui problemi di “spelling”, cioè la difficoltà, nella lingua inglese ancora maggiore che nella lingua italiana, di identificare le lettere che formano una parola. Al termine della lezione fu avvicinato da una ragazza, che identificheremo con le sue iniziali di A.H., che gli testimoniò di avere, insieme ad altri, quel tipo di problemi. Le analisi di McCloskey confermarono il dato: i problemi di “spelling” erano evidentissimi. Ma ciò che realmente colpì il docente, al punto da fargli cambiare settore di studio e passare all’analisi del sistema visivo, fu la ragione per cui questi errori si verificavano: la ragazza vedeva gli oggetti non dove si trovavano, ma in una posizione spazialmente opposta. Ad esempio lei vedeva una tazza di caffè alla sua sinistra, mentre in realtà si trovava a destra, oppure percepiva in fondo allo schermo del computer un’icona che si trovava nella parte superiore, come se il sistema visivo utilizzasse un sistema di riferimento cartesiano x-y che cambiava orientamento ingannandola.



I successivi esperimenti mostrarono fenomeni ancora più sorprendenti: questo scambio di posizione infatti si verificava quando gli oggetti rimanevano fermi per almeno uno – due secondi, mentre A.H. era perfettamente in grado di identificare la posizione di oggetti in movimento o che apparivano per un tempo molto breve. Un fatto che sembra confermare che il nostro sistema visivo utilizzi “percorsi” separati per gli oggetti fermi e per gli oggetti in movimento. Lo studio della letteratura scientifica ha permesso a McCloskey di scoprire che un caso simile si era verificato nel 2007 in Svizzera. Ma in tale circostanza il paziente aveva acquisito tale problema solo dopo che il suo cervello era rimasto senza ossigeno per alcuni secondi. A.H. invece sembrava essere nata con questa curiosa disfunzione.



A.H. è una brillante studentessa con un rendimento scolastico incredibile per il tipo di problema di cui soffre. Riesce a guidare, grazie al fatto che gli oggetti in movimento sono percepiti correttamente. Per leggere i numeri telefonici utilizza le dita per rivelare un numero alla volta e evitare l’inevitabile rimescolamento che la sua patologia genera. Rimescolamento che le rende impossibile leggere gli orologi e che quindi l’ha portata a non indossarne più, per avere la libertà di chiedere sempre a qualcuno che ora sia. Nel percepire la posizione degli oggetti e delle persone utilizza in maniera estesissima tatto e udito, che sono perfettamente funzionanti.

Questa ricerca, che McCloskey ha descritto in un libro appena pubblicato negli Stati Uniti, è l’ennesimo esempio che evidenzia come tutte le situazioni o le patologie che mostrano uno scostamento dal comportamento “normale” si rivelano utilissime per una comprensione di come funziona il cervello umano e della sua relazione con gli organi di senso. Ma è soprattutto la dimostrazione che il cervello umano non sembra arrendersi di fronte a nessuna difficoltà e, anche di fronte a patologie apparentemente insormontabili, la sua plasticità, la sua adattabilità, la sua capacità di utilizzare tutte le risorse in maniera creativa ci permettono di entrare in relazione con la realtà così come essa è.