Da circa un anno, chiunque desideri saggiare il polso ambientale del nostro Pianeta a partire dai dati raccolti in alta quota non ha che da collegarsi alle pagine web del programma Share (Stations at High Altitude for Research on the Environment): gli apparirà un cruscotto con i principali indicatori delle condizioni ambientali misurati dalla stazione meteorologica automatica più alta del mondo. I dati vengono dallo speciale laboratorio installato a 8.000 metri da una spedizione italiana nell’ambito del programma Share che si colloca nel solco di EvK2Cnr, l’iniziativa ideata e avviata oltre vent’anni fa da Ardito Desio e uno dei fiori all’occhiello della ricerca italiana nel mondo.
La stazione Share è un vero e proprio sensore del global warming. Sì, perché le conseguenze del riscaldamento globale si vedono particolarmente bene in alta quota nel Pakistan settentrionale, come ha detto Aziz Ali Najam, ex Vice Rettore dell’Università Internazionale del Karakorum a Gilgit, intervenendo ieri a Milano al convegno “Mountains: Energy, water end food for life”, organizzato dal Comitato EvK2Cnr, dall’Assessorato alla Mobilità, Trasporti e Ambiente del Comune di Milano e dal Comitato Milano-Expo. Ali Najam è venuto in Italia a parlare dei problemi e delle opportunità di ricerca di queste aree; “non nelle zone tristemente presenti nelle cronache quotidiane, ma proprio a Nord, là dove svettano le cime imbiancate del Karokorum”.. Ne ha parlato sullo sfondo delle spettacolari immagini delle più alte vette del Pianeta e dei ghiacciai perenni e ha colto l’occasione per far conoscere iniziative come il Seed, un programma di educazione ambientale che l’università di Gilgit sta lanciando con una consistente collaborazione italiana. Lo scienziato pakistano ha insistito sull’importanza della “presa di coscienza da parte delle popolazioni locali circa la specificità del loro ecosistema e dell’urgenza di diffondere la consapevolezza di un ambiente che rappresenta uno degli ecosistemi più importanti per il controllo degli equilibri ambientali mondialeie quindi va tutelato anche nell’interesse di tutto il Pianeta”.
Ed è proprio da questa idea che è nato il progetto Share, un progetto italiano, promosso dal EvK2Cnr con una ampia partecipazione internazionale. Il progetto si fonda sulla constatazione che le montagne sono piattaforme ideali per lo studio dei cambiamenti climatici; le misure eseguite in quota possono essere considerate rappresentative di vaste aree geografiche. Naturalmente è necessario un approccio integrato basato su osservazioni a lungo termine e un’adeguata modellistica climatica al fine di meglio comprendere fenomeni e processi in atto che portano alla definizione di opportune strategie di mitigazione. Ecco allora la struttura della rete Share checomprende diverse stazioni in Italia e nel mondo in grado di monitorare in tempo reale l’ambiente e l’atmosfera. Questa rete è storicamente attiva in Italia e Himalaya con la stazione Isac – Cnr “Ottavio Vittori” al Monte Cimone, in funzione da oltre 15 anni, e con il Laboratorio – Osservatorio Piramide a oltre 5000 metri di quota, posto alle pendici dell’Everest in Nepal e attivo da oltre 10 anni. Più di recente si sono aggiunti ulteriori siti di indagine in Pakistan e in Uganda, con le installazioni delle stazioni meteorologiche più elevate: quella asiatica, citata all’inizio e quella africana, installata nel 2006 a 4750 m alle propaggini del più grande ghiacciaio del Ruwenzori. Le stazioni registrano i parametri standard definiti dal Wmo (World Meteorological Organization) e cioè: temperatura dell’aria, umidità e pressione, intensità e direzione del vento, radiazione solare e precipitazioni. Nel prossimo futuro verranno identificati punti di osservazione anche in Sud America (Argentina).
Con le sue stazioni in Italia, Asia e Africa, Shareè diventato un punto di eccellenza e unicità di competenze italiane integrate in progetti scientifici internazionali di monitoraggio climatico – ambientale. Tali ricerche sono indirizzate a una significativa serie di obiettivi, tra i quali: studiare l’influenza delle attività antropiche e dei processi naturali su scala continentale e più in particolare nelle aree montane; studiare i meccanismi di interazione delle catene montuose con la circolazione atmosferica globale; studiare la variabilità stagionale dei composti atmosferici inquinanti e climalteranti; caratterizzare la fisica e la chimica dell’aerosol, delle piogge e delle nevi; valutare il bilancio di massa ed energia di apparati glaciali e conseguenti rischi per l’uomo; monitorare le variazioni geometriche di ghiacciai, rock-glacier e morene; mettere a punto modelli idrogeologici riguardanti i flussi idrici; predire i rischi geologici attraverso tecniche di telerilevamento.
È la traduzione in pratica di quanto affermato in un documento dell’Assemblea Generale dell’Onu, che segnalava gli ecosistemi montani – bacini preziosi per il sostentamento idrico del Pianeta e per le biodiversità – quali indicatori principali degli effetti dei cambiamenti climatici.