Quando pensiamo ai cambiamenti climatici, siamo portati a chiamare in causa subito il Sole e i fattori geofisici ad esso collegati, oppure, a seconda della scuola di pensiero, l’impatto dell’attività dell’uomo col suo carico di gas serra immessi in atmosfera. Eppure c’è un altro fattore determinante, almeno per quanto riguarda i mutamenti su grande scala temporale e «dobbiamo cercarlo centinaia di chilometri sotto i nostri piedi». Lo sostiene Enrico Bonatti, docente di geodinamica a “La Sapienza” di Roma e già direttore dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) del CNR di Bologna, in un articolo sul numero di maggio de Le Scienze. Un saggio molto documentato, che raccoglie e sintetizza numerosi studi svolti in anni recenti ma ricollegabili a ipotesi che riconducono i cambiamenti del clima a cause interne alla Terra e avanzate in tempi non sospetti, quando nessuno parlava ancora di global warming.
Come nel caso del geologo americano Thomas Chamberlain, che nel 1899 aveva suggerito l’idea che l’emergere delle grandi catene montuose, prodotto dalla collisione delle placche continentali sottostanti, avesse provocato un aumento del prelievo di anidride carbonica dall’atmosfera e il successivo raffreddamento del clima. Quasi un secolo dopo, due ricercatori della Columbia University avevano riconsiderato l’ipotesi di Chamberlain confermandola: l’innalzamento dell’Himalaya, ad esempio, iniziato 45 milioni di anni fa, ha modificato la circolazione atmosferica dell’emisfero Nord del Pianeta, inaugurando il regime dei monsoni e facendo scendere di parecchi gradi la temperatura media di vaste regioni.
Viceversa, per avere esempi di intenso surriscaldamento, basta andare un po’ più indietro nel tempo, nel Cretaceo (circa cento milioni di anni fa) o nel Paleocene/Eocene (56 milioni di anni fa). Nel primo caso, come proposto da Walter Pitman e Roger Larson, l’affiorare dalle regioni profonde del mantello terrestre di materiale bollente avrebbe generato fenomeni di vulcanismo eccezionale immettendo negli oceani e quindi in atmosfera ingenti quantità di gas serra e inducendo così un aumento della temperatura del pianeta. Nel secondo caso, secondo il norvegese Henric Svensen, è stata l’apertura dell’Atlantico settentrionale, con la separazione della Groenlandia dall’Europa, a favorire un intenso vulcanismo e la risalita dai fondali oceanici di grandi quantità di anidride carbonica e metano e innescando un riscaldamento globale che faceva aumentare la temperatura superficiale degli oceani di 5 – 6 gradi.
Bonatti, che abbiamo interpellato mentre si preparava a partire per gli States dove è Special Scientist presso il Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University, tiene a sottolineare che si tratta di studi che «riguardano l’evoluzione climatica su tempi molto lunghi: non parliamo dei prossimi 50 o 100 anni, per i quali siamo giustamente preoccupati di cosa potrà derivare dall’aumento della CO2 presente in atmosfera; qui si tratta di milioni di anni fa, quando la Terra stava lentamente, e spesso catastroficamente, assumendo la configurazione e l’equilibrio che ha oggi».
Bonatti descrive i due processi che sono alla base del meccanismo che ha regolato il clima terrestre fino ad oggi: «immissione di anidride carbonica e metano negli oceani o direttamente in atmosfera dal basso, cioè dal mantello; estrazione di CO2 dall’atmosfera per alterazione delle rocce continentali e formazione di carbonati. La prevalenza del secondo meccanismo in certe fasi della storia della Terra ha portato al raffreddamento del clima, mentre la prevalenza del primo ha prodotto periodi di clima caldo». I generatori di quei meccanismi sono quei fenomeni sconvolgenti che hanno agitato, e ancora agitano, il nostro movimentato pianeta e che non penseremmo di dover mettere in relazione al clima: il movimento delle placche continentali, l’innalzamento delle catene montuose, il vulcanismo, i terremoti. Sono in aumento, ad esempio, le evidenze che le masse continentali si sono aggregate e disaggregate più volte negli ultimi due miliardi di anni; e ciò non può non aver inciso sulle condizioni climatiche. Clamoroso è quanto avvenuto 700 milioni di anni fa, quando il supercontinente detto Rodinia si è frammentato dando vita a fenomeni fisico-chimici che hanno drasticamente ridotto la CO2 atmosferica, facendola scendere fino a 200 parti per milione (quasi la metà delle attuali 380) e inducendo un raffreddamento che ha trasformato il pianeta in una snowball Earth, una “Terra a palla di neve”, col rischio dell’estinzione delle primitive forme di vita.
Ma qual è il senso di studi di questo tipo, così lontani dalla situazione presente? «Proprio per la rilevanza e la drammaticità del problema climatico per il nostro oggi e il nostro domani, è importante renderci conto pienamente di che tipo di fenomeno sia il clima terrestre. È un processo molto complesso, che risulta dalla combinazione di molteplici fattori: ci sono fattori esterni al pianeta e altri interni, ci sono cause naturali e antropiche, ci sono eventi traumatici e fenomeni più graduali». Una corretta posizione scientifica tende a considerarne il più possibile, dice Bonatti, a non trascurare o sottovalutare nessuna pista di indagine.
E come si può andare indietro nel tempo per studiare il clima preistorico, così ci si può spingere nel futuro prevedendo i possibili scenari fra cento milioni di anni. I modelli che Bonatti pensa di poter elaborare si baseranno su due fattori principali: l’aumento di luminosità e quindi di calore proveniente dal Sole e i movimenti magmatici nell’interno del mantello. Sempre che la delicata macchina-Terra continui a funzionare per tutto quel tempo.