Si chiama ITER, che in latino significa “cammino” ed è un cammino tutto in salita quello del grande progetto internazionale per la realizzazione di un reattore sperimentale basato sul processo di fusione termonucleare. Il progetto, la cui sigla è l’acronimo di International Thermonuclear Experimental Reactor, è stato varato nel 2007 ed è il più costoso esperimento scientifico attualmente in preparazione, frutto degli sforzi congiunti dell’Unione Europea, degli Usa, di Cina, India, Giappone e Corea del Sud. I costi previsti inizialmente erano di 5 miliardi di euro per la costruzione del reattore e altrettanti per il suo funzionamento per vent’anni; ma le stime più prudenti ora parlano di 10 miliardi per la costruzione; e anche i tempi di realizzazione si allungano, facendo slittare dal 2020 al 2025 la data del primo esperimento in grado di validare la fusione come sistema efficace di produzione di energia.
In questi giorni, in vista della prossima riunione del comitato ITER, a metà giugno in Giappone, si sollevano voci allarmate per questa crescita indesiderata dei costi dell’impresa e anche l’autorevole rivista Nature scende in campo a raccogliere le voci di chi invoca più trasparenza nel complesso iter (questa volta nel senso del percorso) che porterà a realizzare il sogno di una energia abbondante e di ridotto impatto ambientale.
Ma come si vive dall’interno questa situazione? L’abbiamo chiesto a Carlo Sozzi, ricercatore del Cnr che da anni si occupa di fusione nucleare facendo la spola tra l’Istituto di Fisica del Plasma di Milano e il Culham Science Centre di Abingdon (UK), sede di EFDA-JET (European Fusion Development Agreement – Joint European Torus).
Sono da condividere le preoccupazioni espresse da Nature?
ITER è innanzitutto un esperimento di fisica e di tecnologia di complessità tale da non avere probabilmente eguali sul nostro pianeta. Ed è anche un esperimento socio-politico, che vede la cooperazione di sette partner internazionali (uno dei quali è l’Europa dei 26, più la Svizzera). Più che di mancanza di trasparenza, che spesso si associa a pratiche illecite o alla copertura di interessi personali, parlerei di una intrinseca complicazione, dove alle difficoltà scientifiche e tecnologiche si aggiungono quelle relative alla spartizione dei costi di una impresa così ambiziosa e, inutile negarlo, costosa. Non penso che ci siano costi gonfiati per malaffare, o interessi illeciti, almeno non più di quanto non accada “fisiologicamente” in una qualsiasi impresa di queste dimensioni, dove sono coinvolti non solo scienziati e ingegneri ma realtà industriali, pubbliche amministrazioni ecc.. Premesso ciò, è vero che dalla sua costituzione ufficiale l‘Iter Organization ha intrapreso la cosiddetta “design review” (revisione di progetto) che consiste nella analisi tecnica e scientifica dettagliata che porta spesso anche alla revisione dei costi. È chiaro che in qualsiasi progetto complesso il livello di dettaglio che si può raggiungere nella fase precedente all’approvazione è di gran lunga inferiore a quello necessario per la fase di realizzazione. Ed approfondendo i vari aspetti a diversi anni di ricerca e sviluppo di distanza emergono problemi e imprevisti. Forse anche l’aspetto organizzativo deve entrare a regime e magari trarrebbe beneficio da una revisione…
Stanno cambiando le tempistiche che prevedevano l’avvio della macchina nel 2018 e il primo esperimento utile nel 2020?
Non ho visto ancora affermazioni ufficiali, ma non sarei per nulla sorpreso come non lo sarebbe nessuno che lavora nel campo. La sorpresa piuttosto è che ci sia qualcuno che pensi che si possa realizzare un’impresa di frontiera scientifica e tecnologica dove tutto vada liscio come l’olio, senza imprevisti, ritardi ed errori. Se condivido la necessità di chiarezza in termini di costi, tempi ed obiettivi, non mi sembra applicabile ad una impresa scientifica lo stesso schema di analisi di “efficienza aziendale” che si applica per progetti che usano strumenti e tecnologie ormai di routine. Se vogliamo, ciò che andrebbe reso chiaro è che ITER è un esperimento scientifico (come del resto è scritto nelle prime righe della web page …), il cui esito, positivo o negativo può influenzare il futuro dell’umanità, come potrebbe fare, non so, la scoperta della cura del cancro. Nessuno può promettere quando e nemmeno se questo avverrà, tutti possono solo promettere di lavorare con impegno e passione. Cosa che secondo me succede nella stragrande maggioranza dei casi.
C’è chi pensa anche a una versione ridotta di Iter, ma la maggior parte degli scienziati non sembra favorevole. Perché?
Perché l’esperimento non è scalabile a dimensioni inferiori. Questo è già stato fatto una volta, intorno al 2000, quando terminato il primo studio di fattibilità si decise che occorreva ridurre i costi e quindi per la fase successiva, che poi fu approvata nel 2006 e diede il via all’attuale organizzazione, si ridussero le dimensioni della macchina e di conseguenza si ridussero i suoi obiettivi scientifici e tecnici. L’obiettivo fu scalato dalla cosiddetta “ignizione”, uno stato per cui le reazioni termonucleari producono tutta l’energia necessaria ad autosostentare il funzionamento della macchina, al cosiddetto “Q=10”, cioè una condizione per cui ITER “amplifica” l’energia che comunque deve essere introdotta per farlo funzionare. Tra i fattori determinanti le prestazioni (ma anche i costi) ci sono proprio le dimensioni della macchina, che favoriscono il confinamento dell’energia e quindi la realizzazione delle condizioni di fusione termonucleare. L’energia sfugge più lentamente da un sistema di grandi dimensioni che da uno piccolo, e questo aiuta non poco. Ridurre ulteriormente le dimensioni, già al limite, significherebbe abbassare drammaticamente le probabilità di successo.
Quali sono i principali colli di bottiglia da superare?
Sono molti, sia sul fronte scientifico che su quello tecnologico. Occorre mettere a punto una soluzione per le instabilità che si sviluppano verso il bordo esterno del plasma nella macchina quando viene raggiunto un buon livello di confinamento dell’energia (quelli che in linguaggio tecnico vengono chiamati ELMs, Edge Localized Modes). Occorre comprendere la giusta combinazione dei cosiddetti riscaldamenti addizionali, cioè quei sistemi che servono a portare l’idrogeno nella macchina alla temperatura utile. Occorre comprendere come gestire l’ingresso e l’uscita del trizio, l’isotopo radioattivo dell’idrogeno che è parte del combustibile. Mi fermo qui, l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ovviamente non è che questi problemi si siano posti ieri per la prima volta, è che sono stati e sono studiati con grande impegno sugli esperimenti di fusione che sono attivi nel presente (o lo sono stati nel passato) i quali però possono dare solo risposte parziali, essendo le condizioni significativamente diverse da quelle che si realizzeranno su ITER.