La lettura dell’articolo “The man who smells the forests” (“L’uomo che annusa le foreste”) pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature (vol. 459, 28 maggio 2009), offre lo spunto per alcune riflessioni su un argomento che, più di una volta, ha trovato spazio sui nostri maggiori quotidiani con articoli che, spesso, hanno “demonizzato” gli alberi ed ai quali difficilmente è stato concesso diritto di replica.
È noto e documentato che le piante emettono, seppur in modo molto diverso da specie a specie, composti organici volatili (biogenic volatile organic compounds, BVOCs) come isoprene e monoterpeni. Questi composti reagiscono nell’atmosfera con gli ossidi di azoto (NOx) per formare ozono. Pur non essendo completamente conosciute le loro funzioni essenziali, essi potrebbero svolgere un ruolo dinamico nelle strategie adattive a fattori di stress; tra le ipotesi dominano quelle relative ad un fattore di protezione contro i parassiti (ad esempio, mediante l’attrazione dei nemici naturali), allo stress termico (mediante stabilizzazione delle membrane) ed ossidativo e al potere deterrente contro gli erbivori.
Sebbene il loro contributo possa essere ridotto rispetto ad altre sorgenti, l’emissione di BVOCs dalle piante potrebbe esacerbare i problemi legati all’inquinamento. È, comunque, da rimarcare che alberi che sono ben adattati e che hanno ottimi tassi di crescita in certi ambienti non dovrebbero essere sostituiti solo perché emettono BVOCs. La quantità di emissioni di CO2 ed altri inquinanti gassosi e di particolato, prodotte per gestire un albero che emette una limitata quantità di composti organici volatili, ma che non è adatto ad una certa zona o che richiede eccessivi interventi gestionali (es. irrigazioni, potature, ecc), potrebbe essere considerevole e controbilanciare ogni possibile beneficio derivante dalla limitata produzione di questi composti.
Mi preme sottolineare che gli alberi non dovrebbero essere accusati di essere delle fonti di inquinamento, perché i benefici netti della loro presenza sulla qualità dell’aria e sulla riduzione delle emissione antropiche, compensano largamente le possibili conseguenze dell’emissione di BVOC sulla concentrazione di ozono.
Deve essere messo in risalto che l’effetto della aree verdi sulla produzione di ozono sono stati evidenziati in epoca recente dalla comunità scientifica, cosicché le ricerche condotte non hanno ancora consentito di trarre delle conclusioni univoche. Alcuni studi hanno quantificato l’effetto dei BVOC sulla formazione di ozono, ma nessuno ha fornito conclusioni esaustive sull’influenza della cosiddetta “foresta urbana”. Come affermato da Penuelas e Lluisà (Science, 3, 2003) fra le provate e non provate funzioni dei BVOCs ci sono alcune indicazioni scientifiche sul fatto che questi composti possano proteggere le piante dalle alte temperature. L’emissione di queste sostanze potrebbe perciò aumentare con il riscaldamento globale e con altri fattori associati al global change, includendo anche il cambiamento della copertura del suolo. Questo aumento di emissioni potrebbe contribuire in modo significativo (attraverso meccanismi di feedback negativi e positivi) ai complessi processi associati al global warming, ma su questo ci sono ancora molte questioni non chiarite.
Non tutte le specie di alberi, comunque, emettono elevate quantità di BVOCs. È, pertanto, auspicabile che venga posta una certa attenzione nella scelta delle specie, considerando che, per esempio, alcune latifoglie del genere Eucalyptus (adesso classificate come Corymbia), Liquidambar, Robinia, Liriodendron, Populus, Quercus, Platanus (Plane), Salix e, essenzialmente, tutte le conifere, producono elevate quantità do isoprenoidi volatili, mentre altre come Acer e Tilia hanno potenziali di emissione limitati in condizioni ottimali di salute (Niinemets and Penuelas, 2008).
In relazione a quanto emerge dalle ricerche condotte, appare necessario il monitoraggio delle emissioni dalla vegetazione urbana, anche allo scopo di fornire indicazioni per l’attuazione di una corretta politica ambientale tendente all’abbattimento delle emissioni antropogeniche in aree dove la relazione con composti biogenici può portare alla formazione di ozono. Emerge, quindi, l’importanza di condurre ricerche su questo argomento a vario livello, sia di base che applicativo per dare risposte certe ed evitare che l’opinione pubblica venga influenzata da informazioni errate e prive di fondamento scientifico o, anche qualora esso sia presente, sia interpretato, più o meno surrettiziamente, in modo inesatto. Ciò può innescare una spirale di retroazione negativa in un Paese, come il nostro, che già fa pochissimo per il rispetto di essere viventi dai quali, è bene ricordarselo, dipende la nostra stessa esistenza.
Piantare alberi è uno dei presupposti di gran parte dei programmi di miglioramento ambientale delle principali istituzioni internazionali che si occupano di ambiente e, nel presente di scenario di cambiamenti globali (non solo climatici), la scelta delle piante da inserire nelle aree verdi delle nostre città non può e non deve avvenire solo su basi estetiche o limitando la scelta alle sole specie indigene, ma deve tener conto del potenziale “contributo” ambientale che le specie che saranno messe a dimora potranno apportare.
Appare perciò necessario che questa scelta debba essere basata su altri parametri come la quota d’inquinanti rimossi dalla vegetazione, il miglioramento, in percentuale, della qualità dell’aria, l’emissione oraria e giornaliera dei composti organici volatili da parte della pianta, ed il relativo impatto sulla genesi di ozono e di monossido di carbonio annuali; l’ammontare totale del carbonio organicato, l’effetto del bosco urbano sull’efficienza energetica nella zona confinante, la produzione di polline e allergeni, l’evapotraspirazione e la conseguente modifica del microclima.
I risultati presenti in letteratura, tuttavia, non sono sempre direttamente applicabili in Italia, sia per una diversità di condizioni pedoclimatiche, sia per un diverso contesto sociale, culturale ed economico e necessitano una revisione completa con l’elaborazione di modelli originali che tengano in considerazione anche la specificità della flora e degli assetti urbanistici riscontrabili nelle varie zona d’Italia.
Proprio per questo sono in corso, in Italia e, soprattutto, all’Estero, numerosi progetti di ricerca che vedono coinvolti gruppi di ricerca multidisciplinari, che affrontano le problematiche legate ad una visione globale del verde multifunzionale ormai considerato come un vero e proprio ecosistema diversificato ed ecologicamente stabilizzato che assicuri, alla comunità, quelle condizioni di sostenibilità ormai divenute condizione indispensabile nella gestione del verde urbano e periurbano.
È mia personale opinione che il lavoro di questi gruppi debba avere un’eco altrettanto importante sulle maggiori testate nazionali che nella scelta del titolo o nei contenuti di articoli rischiano di creare nella comunità un’opinione errata e, ripeto, fuorviante, col rischio di vanificare il lavoro che ricercatori di tutto il mondo stanno portando avanti con difficoltà a causa della cronica mancanza di finanziamenti su questo tema di fondamentale importanza per la qualità della nostra vita.