Nei mesi passati, leggendo interviste rivolte a professori e ricercatori del mestiere, i lettori de ilsussidiario.net hanno imparato che in tema di terremoti non si può trascurare la nozione di “replica”. In poche parole questo concetto ci informa di quanto sia poco probabile che, a seguito di una grossa scossa tellurica, non ne seguano altre nei giorni e mesi successivi, sebbene di intensità variabilmente minore. Notizia non propriamente confortante, ma almeno realistica e veritiera. Di queste “repliche” se ne è avuto un notevole esempio la scorsa notte, intorno all’1.00 del 23 giugno. Un tremore sismico di magnitudo di 4.5 sulla scala Mercalli, lontano dunque dal 5.8 del 6 aprile, ma decisamente forte. Abbiamo chiesto al professor Ignazio Guerra alcuni chiarimenti intorno a quest’ultimo evento che, fortunatamente, non ha provocato ulteriori vittime e danni alle strutture.



La prima cosa che ci interessa sapere è se, a suo avviso, si tratta di un fenomeno collegato al terribile terremoto dello scorso 6 aprile.

Questo è praticamente certo. Purtroppo non abbiamo dei criteri scientifici per stabilire con esattezza delle definizioni logiche. Ad esempio non abbiamo un criterio irrevocabile per il quale a partire da oggi scosse simili si possano chiamare “repliche” e da domani invece si possano ribattezzare “terremoti”. Bisogna quindi andare a senso. Certamente il fenomeno è correlato. Ce lo dice non la natura in sé dell’evento, ma il fatto che questo sia in strettissima relazione spaziotemporale con il precedente. La registrazione nel corso del tempo di attività in relazione spaziotemporale ha fatto in modo che il ripresentarsi di questi eventi si chiami “replica”. Quindi a tutti gli effetti quest’ultima è una replica.



Il fatto che nello studio dei terremoti si vada, come dice lei, “a senso” lascia intuire che non ci sia una risposta certa nemmeno su quando questa serie di fenomeni possa aver fine. È così?

Precisamente. I rinforzi dell’attività sono una cosa molto più frequente di quanto non sembri. È chiaro che eventi di questo tipo prima o poi finiranno, ma non in tempi che siano prevedibili. Basta rifarsi un po’ anche alla nostra memoria storica per capirlo. Dopo il terremoto del 23 novembre 1980 in Campania, ci fu una replica il 14 febbraio 1981 che provocò altri otto morti presso il cosiddetto Ospizio dei Poveri di Napoli, dove cadde un’ala dell’ospedale. Più indietro: 15 settembre 1976, si correva il giro del Friuli e ci fu un’altra scossa quasi equivalente a quella precedente del  6 maggio. In questo caso ulteriori vittime non mi pare che ce ne siano state, tranne qualche corridore che si spezzò una gamba fuggendo dall’albergo.



Insomma, quando noi sismologhi diciamo che normalmente l’energia delle scosse di assestamento va diminuendo e le repliche vanno diradandosi anteponiamo sempre l’avverbio “statisticamente”. La statistica è una scienza che ammette eccezioni, soffre della mancanza di dettaglio. E sulla statistica si basa la sismologia.

Nei giorni successivi al terremoto del 6 aprile si parlò anche del metodo di Giuliani basato sull’individuazione di fughe di gas, il radon, dal terreno. Se ne sono registrate in questa occasione?

No, fortunatamente non se ne parla più. Meglio stendere un velo pietoso su tutta quella storia. Non so che cosa stia facendo ora il signor Giuliani, ma so soltanto che l’Italia non fece una bella figura in quel frangente. Tutto sommato fu un neo all’interno di una brillante operazione condotta dalla protezione civile. I giornali diedero risalto a un individuo che sosteneva una tecnica la cui inutilità era già stata ampiamente dimostrata in varie sedi accademiche internazionali. E ricordo lo stupore di alcuni colleghi stranieri anche solo per il fatto che quello del radon fosse considerato un metodo proponibile.

Non esiste una correlazione vera e propria fra i cosiddetti “fenomeni precursori” legati al radon e i terremoti. Per cui se si hanno energie e fondi da impiegare per studiare gli eventi tellurici, cosa che un giorno potrà portare a risultati utili anche in senso di prevenzione e soccorso, è preferibile e ragionevole che ciò venga fatto seguendo piste poggiate su riscontri scientifici autentici.

A prescindere dal radon, in questo caso ci sono stati segni premonitori dell’arrivo di una scossa così forte?

No, non ce ne sono stati in particolare. Mi spiego meglio: a seguito di un evento tellurico della portata di quello dello scorso 6 aprile, si susseguono micro fenomeni tellurici pressoché ininterrotti per lunghi mesi. Per far meglio capire questo concetto, qui dal mio studio, pochi minuti fa, abbiamo riportato la registrazione di una scossa di magnitudo 2.4 alle 12.41 nel territorio de L’Aquila. Ed è l’ennesima da aprile. Questo dice dei livelli di allerta che caratterizzano attualmente la regione Abruzzo. Se per ogni scossa dovessimo comportarci come si fa per un segno premonitore la popolazione sarebbe fuggita centinaia di volte dal 6 aprile ad oggi.

C’è comunque da dire che dal punto di vista grafico anche questo evento non fa che confermare il graduale assopirsi del fenomeno di aprile. Se segnassimo infatti la linea grafica vedremmo una lunga discesa interrotta da una brusca salita che poi ricomincia a scendere.

L’Abruzzo fa comunque parte di una zona d’Italia particolarmente “disgraziata” dal punto di vista sismico, non è vero?

L’Abruzzo fa parte della catena appenninica che è una catena ancora molto attiva. Umbria, Abruzzo, Irpinia, Basilicata, Calabria: mi sembra che di terremoti ne sappiano davvero qualcosa. Teniamo presente che nel corso della storia ce ne sono stati numerosissimi. Nel 1905 a Castrolibero in Calabria, o il famoso terremoto del 1456 che colpì contemporaneamente tutte queste regioni, per non parlare del terremoto del 1908 a Messina. Si pensi poi, per quanto riguarda la catena appenninica, che uno dei terremoti che viene considerato l’“atto di nascita” della sismologia è quello del 16 dicembre 1857 in Basilicata, che causò circa 10/12.000 morti.

Il problema della catena appenninica risiede nella sua natura: fondamentalmente si tratta di grosse “fette” di terra accavallate l’un l’altra che tendono a “scivolare” verso l’Adriatico. Una scivolata che non sarà mai definitiva, ma che purtroppo ogni tanto causerà questo tipo di terremoti.