Quarant’anni fa, in questi giorni, dopo un viaggio di oltre 380.000 chilometri, l’equipaggio dell’Apollo 11 si stava avvicinando al suolo lunare dove il modulo LEM avrebbe posato le sue strane zampe nella sera (italiana) del 20 luglio e dove poche ore dopo Neil Armstrong avrebbe impresso quella celebre impronta.
La ricchezza di suggestioni e di significati che un evento di questa portata storica racchiude è tale che, al di là degli aspetti celebrativi, vale la pena ritornare con la memoria a quella data e, per chi non c’era a seguire la lunga diretta Rai, ascoltare i resoconti e le riflessioni di chi ha vissuto e si è appassionato a quell’avventura.
Come Piero Benvenuti, allora giovane ricercatore e ora, dopo un’intensa attività nel campo dell’astrofisica a livello internazionale, sub-commissario della Agenzia Spaziale Italiana.
Anzitutto, un ricordo personale di quell’evento: come lo ha seguito? cosa ha provato?
Ricordo di avere assistito alla trasmissione televisiva diretta dello sbarco in compagnia dell’allora mia fidanzata e oggi mia moglie: grande emozione nel rendersi conto di vivere un momento unico e irripetibile della storia. A distanza di anni rimane anche vivo il ricordo della simpatica, ma appassionata disputa sull’istante dell’allunaggio tra i giornalisti Tito Stagno e Ruggero Orlando, professionisti da riascoltare e rimpiangere.
È stato un trionfo della tecnologia americana o c’erano possibilità che potesse fallire?
È stato sicuramente un trionfo; ma è chiaro, soprattutto considerato a posteriori, dopo decenni di imprese spaziali, che i rischi assunti erano enormi. Bisogna però ricordare che assieme all’entusiasmo dei pionieri, l’Ente Spaziale Americano, la NASA, era riuscito all’epoca ad accaparrarsi le migliori menti scientifiche e tecnologiche: un gruppo compatto e determinato, tanto affiatato da agire come un unico organismo.
Dovendo riproporlo adesso, il livello tecnologico attuale renderebbe l’impresa molto diversa? Quali sarebbero le differenze più rilevanti?
La tecnologia ha fatto progressi notevolissimi e l’impresa sarebbe oggi, per così dire, più “controllabile” e quindi sulla carta più sicura. Al tempo stesso la NASA ha moltiplicato le sue attività e non è detto che al progresso tecnologico segua sempre di pari passo l’adeguamento gestionale. Certamente l’entusiasmo da “pionieri” di quarant’anni fa, elemento fondamentale per il successo dell’impresa, non è riproducibile e difficilmente imitabile. Quindi, per quanto assurdo possa sembrare, lo sforzo organizzativo e l’attenzione per i dettagli dovrebbe essere oggi sicuramente superiore. Dal punto di vista tecnologico, credo che la differenza più rilevante sarebbe nella possibilità di scegliere con maggiore conoscenza e flessibilità la zona di allunaggio, il sistema stesso di allunaggio con lo “Sky-crane”, la “Gru spaziale” che promette di posizionare con esattezza sulla superficie lunare carichi pesanti e la maggiore funzionalità e “intelligenza” della robotica.
Perché non si è più ritentato? Ci sarebbe qualche interesse scientifico a tornare sulla Luna? A cosa potrebbe servire una base lunare?
Motivazioni strategiche e scientifiche hanno privilegiato l’avventura della International Space Station (ISS). Lasciando le prime ai commentatori di politica internazionale, quelle scientifiche si basavano sulla possibilità di utilizzare un vero e proprio laboratorio posto in condizioni di micro-gravità, dove compiere esperimenti impossibili altrove (sulla Luna la gravità esiste e, ancorché ridotta rispetto a quella terrestre, non modifica sostanzialmente le condizioni). L’accesso alla ISS permetteva anche di verificare i cambiamenti biofisici, biologici e psicologici di una lunga (mesi) permanenza dell’uomo in condizioni di assenza di gravità. Il laboratorio è ora completato e continuerà a funzionare ancora per diversi anni prima di dichiarare chiusa la sperimentazione. È comunque tempo di valutare serenamente e oggettivamente i progressi scientifici e tecnologici, diretti e indiretti, ottenuti. Quello che personalmente mi sembra più rilevante (ma anche preoccupante!) è che quando un astronauta che è vissuto per un anno nello spazio rientra in regime di gravità (sulla Terra, ma per analogia anche su Marte), non è in grado di muoversi autonomamente e ha bisogno di un lungo periodo di riabilitazione. È evidente che finché non si trova una soluzione a questo problema, è illusorio sognare di colonizzare Marte. È altrettanto illusorio, e forse colpevole, far credere che la Luna sia una specie di “miniera” vergine da cui estrarre facilmente elementi rari e risolvere così (ma come in pratica?) i problemi energetici del pianeta Terra. È invece interessante pensare alla Luna come un “laboratorio”, diverso da quello della ISS, ma con caratteristiche scientificamente interessanti che potrebbero essere sfruttate con tecniche robotiche, riducendo quindi costi e rischi. Ciò non toglie la possibilità di rivedere l’uomo sulla Luna, ma riporta il piano spaziale lunare lungo una linea più saggia (che fa quindi tesoro della storia) e, mi sembra, più redditizia ed efficace.
Tra le potenze spaziali sono emersi nuovi attori: chi è più preparato per affrontare i prossimi viaggi interplanetari?
Le nazioni che per prime vengono in mente sono naturalmente Cina e India, ma altre si affacciano entusiaste. Mi sembra che al momento ci sia soprattutto voglia di dimostrare agli altri di essere “partners” spaziali a tutti gli effetti, di essere autonomi nella “conquista dello spazio”. C’è da sperare che questa iniziale “corsa dimostrativa” non trascini le nazioni storiche in folli emulazioni. Lo spazio ha dimostrato di essere un “bene” per l’uomo a patto che venga utilizzato con rispetto e mettendo sempre il bene comune come obiettivo. In questo senso la vecchia Europa sta dimostrando di avere nervi saldi e notevole saggezza, privilegiando sistemi di monitoraggio della Terra, del clima e dell’ambiente, e perseguendo il nuovo concetto di utilizzo integrato dei dati e dei sistemi spaziali per migliorare le condizioni di vita e per prevenire o mitigare le calamità.
Cose le suggeriscono le parole pronunciate da Paolo VI durante l’Angelus del 19 luglio 1969?
Dopo quarant’anni, le parole di S.S. Paolo VI suonano quanto mai attuali: abbiamo “conquistato” lo spazio e posto piede sulla Luna. Forse porremo basi sulla Luna stessa e atterreremo su Marte. Ma cos’è tutto questo in confronto con l’estensione nello spazio e nel tempo del Cosmo intero, dal quale noi tutti deriviamo e siamo collegati da un mai interrotto filo rosso? Cosa significano questi quaranta – cinquant’anni di “era spaziale” di fronte agli “eoni cosmici”, di fronte ai 13,7 miliardi di anni che ci separano e uniscono al tempo stesso alla luce cosmica primordiale? Sono un lampo, un istante di illuminazione che ci ha permesso di riconoscere nel “cielo stellato” di kantiana memoria la razionalità intrinseca del Cosmo, di identificarla con la nostra stessa capacità raziocinante, ma anche di riscoprire la sua “ineffabilità”. Se la scienza e la tecnologia sono lasciate sole, nella loro limitativa visione della “realtà”, rischiano di autogiustificarsi e di imprigionarci lentamente e inesorabilmente in una spirale senza speranza e senza scampo. Se invece, guardando dallo spazio conquistato verso la Terra, riusciremo ancora a distinguere un fiore, il battito d’ala d’una farfalla, il sorriso di un bambino, e sapremo usare la scienza e la tecnologia perché continuino ad esistere per essere amati, allora avremo realizzato la vera metanoia e non dovremo più temere alcunché, in attesa di vedere, non più «per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem», il Cosmo trasformarsi in Regno.