Nella storia della scienza capita a volte che due scienziati arrivino agli stessi risultati indipendentemente: questa volta però sono ben cinque gli studi pubblicati sulla rivista Nature Genetics da altrettanti gruppi di ricerca tra loro indipendenti. In effetti i risultati non sono proprio gli stessi, tuttavia convergono verso la soluzione di un unico tipo di problemi. I gruppi hanno identificato intorno a due geni, CDKN2A e CDKN2B, una sorta di “zona sismica” del cancro: varie mutazioni a ridosso di questi due geni sono risultate legate a molti tipi di tumore diversi, quali il glioma (cancro al cervello) e due tumori della pelle, il melanoma e il carcinoma a cellule basali. Questa scoperta multipla potrebbe quindi svelare nuovi meccanismi di innesco dei tumori.



Le ricerche sono state guidate da personalità ben note nel settore come Richard Houlston del Institute of Cancer Research di Sutton (UK), Melissa Bondy della University of Texas presso Houston, Timothy Bishop dell’Università inglese di Leeds, Tim Spector del Kings College di Londra, Simon Stacey del centro Decode, Reykjavik, in Islanda.



Finora molti geni sono stati legati al rischio cancro ma questi studi, nel loro insieme, dicono qualcosa di più, in quanto evidenziano una zona del genoma, sul cromosoma 9, evidentemente importante nella cancerogenesi dal momento che risulta legata a più neoplasie.

Per comprendere meglio la portata di questi risultati, abbiamo interpellato il professor Marco Pierotti, Direttore Scientifico della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano.

In che contesto si collocano queste ricerche?

Sono ricerche già abbastanza note e partono dall’idea di fondo che anche molti dei casi di tumore o forme preneoplastiche comunemente definite sporadiche in realtà sono associate a una predisposizione genetica. Quest’ultima è su base poligenica, cioè è data dalla simultanea presenza di forme particolari di diversi geni nello stesso individuo; ciò è molto diverso dalle forme eclatanti di tumore eredo-familiare, che assommano a meno del 5% di tutti i tumori e che sono distinti da alterazioni di singoli geni: come ad esempio il gene BRCA1 per il cancro al seno, il gene APC per la poliposi famigliare del colon, il gene RET per le neoplasie endocrine multiple e così via. Mentre i casi monogenici formano gruppi di famigliarità, in questo caso ciò non appare per il riassortimento genica che avviene nella progenie di individui portatori e ciò complica l’individuazione e lo studio di questi geni.



Che cosa ha permesso di raggiungere questi risultati?

Con l’avvento delle tecnologie di high-throughput screening, che rendono possibile l’analisi per sequenza di migliaia di genomi di diversi individui, il problema ha cominciato ad avere un approccio sperimentale grazie alla tecnica degli SNPs (Single Nucleotide Polymorphisms). Questi ultimo sono variazioni di sequenza dei geni che interessano il genoma in media ogni 1000 nucleotidi e sono utilizzati come “marcatori” per capire se quell’allele genico (cioè quella variante) proviene dal padre o dalla madre. La combinazione e l’analisi di migliaia di questi è un potentissimo strumento che permette degli studi di associazione tra un fenotipo (una malattia o predisposizione) e una regione del DNA; e questo senza avere individui imparentati in cui la malattia viene trasmessa o un’ipotesi di quale regione del genoma sia coinvolta. Semplicemente si utilizza un approccio di “forza bruta”, cioè si paragona il profilo di centinaia se non migliaia (genome wide) di SNPs tra due gruppi: quelli di controllo e quelli manifestanti la malattia, in questo caso quel particolare tumore. Si tratta quindi di studi con un numero enorme di casi e con costi molto elevati e che richiedono analisi biostatistiche molto sofisticate. Già in alcuni tumori si sono ottenuti dati interessanti, ad esempio nel caso di tumori polmonari.

 

 

 

Ci sono però ancora delle difficoltà nell’utilizzo di tali metodi?

Alcune ombre sono date dal fatto che in molti casi gli SNPs coinvolti non coincidono con geni ma con regioni anonime di DNA. Quindi molto rimane da fare per un utilizzo pratico di queste scoperte in cui l’aspetto funzionale dei geni individuati è ancora carente.

Perché è importante l’insieme di queste ricerche?

In questi cinque lavori appena pubblicati, un approccio come quello che ho indicato ha permesso di individuare regioni di rischio per il glioma, un tumore della pelle (basalioma) e il melanoma cutaneo. È interessante il fatto che due gruppi hanno trovato dati simili sul glioma individuando che le regioni a rischio ospitano due geni a funzione nota: il CDKN2A e il correlato CDKN2B coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare; funzione ovviamente importante per una crescita controllata della cellula.

Negli altri tre studi una regione del cromosoma 9q21 è stata associata a nei precursori del melanoma, al melanoma stesso e a un tumore relativamente più benigno il basalioma. Anche in questo caso i due geni precedenti risultano contigui alla regione di massimo rischio e questo pone un interessante quesito su comuni meccanismi d’insorgenza di questi tumori.

Gli articoli di Nature Genetics che illustrano queste ricerche presentano un alto numero di autori. Come mai?

Non deve stupire l’elevato numero di autori in quanto ciascun articolo è frutto del lavoro di Consorzi ad hoc. La numerosità dei casi, la laboriosità della tecnologia e la complessità dell’elaborazione dei dati giustificano ampiamente questa situazione.

Anche nel vostro Istituto si svolgono ricerche in queste direzioni?

Con soddisfazione posso comunicare che due Unità, una clinica e una sperimentale, dell’Istituto che dirigo hanno partecipato al lavoro sui basaliomi diretto da Simon N. Stacey dell’islandese centro Decode.