Abbiamo imparato a conoscere i materiali compositi, come le fibre di vetro, che riescono a offrire interessanti proprietà ricavandole dall’insieme delle caratteristiche dei singoli componenti. Ora dovremo imparare a familiarizzarci con le versioni miniaturizzate di tali materiali: un ricercatore del Dipartimento di Scienza e Ingegneria dei Materiali del Mit di Boston, Michael Demkowicz, sta lavorando per portare su scala nanometrica dei compositi col risultato di vedere emergere proprietà totalmente nuove, mai riconosciute nei componenti di partenza.



Demkowicz fa parte di un gruppo operante presso il Los Alamos National Laboratory (Usa) che ha ricevuto un finanziamento federale nel programma Energy Frontier Research Centers per sviluppare nanocompositi in grado di sopportare elevate temperature, radiazioni e carichi meccanici molto forti. L’obiettivo finale è di utilizzare tali materiali in varie applicazioni in campo energetico: dagli impianti nucleari, alle celle a combustibile, all’energia solare, ai sistemi di sequestro della CO2. Sono proprio le applicazioni energetiche quelle che più richiedono materiali speciali e resistenti e Demkowicz pensa di aver trovato un metodo adatto per produrne con le caratteristiche desiderate. Ci è arrivato non col solito sistema di “prova ed errore”, spesso usato per ideare nuovi materiali ma in questo caso troppo lento e costoso. Ha invece pensato a quello che i tecnici chiamano progettazione inversa, che parte dallo stabilire l’insieme di caratteristiche volute e nell’immaginare quale mix di composti può permettere di raggiungerle. È un metodo certamente più veloce, che lo scienziato del Mit ha utilizzato inizialmente per realizzare materiali resistenti alle radiazioni, utili quindi per migliorare l’efficienza e la sicurezza degli impianti nucleari.



Solitamente, quando un materiale è esposto a radiazioni, le particelle molto energetiche come i neutroni urtano contro i singoli atomi e li spingono fuori dal reticolo cristallino. Gli atomi fuoriusciti diffondono il danno creando nelle zone attigue dei vuoti o delle strozzature, l’insieme dei quali rende il materiale debole e fragile. Il segreto per poter realizzare nanocompositi resistenti alle radiazioni sta nell’interfaccia tra gli strati dei diversi materiali. Quanto più uno strato diventa sottile, tanto più l’interfaccia gioca un ruolo determinante al fine di stabilire le proprietà perché il rapporto tra la superficie e il volume diventa sempre maggiore. È questo che fa emergere le nuove proprietà. In alcuni nanocompositi i vuoti e gli atomi schiacciati possono essere catturati dalle interfacce dove hanno più probabilità di incontrarsi: quando ciò avviene, gli atomi fuoriusciti occupano gli spazi vuoti ricostituendo la struttura cristallina. In alcuni casi l’esito di questo processo è tale che il danno dovuto alla radiazione sembra non esserci neppure stato.



Il vantaggio di simili materiali è evidente nel sistema di rivestimento interno dei reattori nucleari, funzione finora svolta tramite acciaio inossidabile. Con i nuovi materiali sarà possibile prolungare la vita utile del reattore e consentire un’operatività con più elevate dosi di radiazioni. Mentre i reattori attuali consumano solo circa l’1% del loro combustibile, quelli così potenziati potrebbero bruciare una maggior percentuale di materiale nucleare lasciando meno scorie.

Il metodo di Demkowicz si basa sulla riproduzione delle interazioni meccaniche tra gruppi di atomi ed è stato già applicato per progettare nanocompositi con interfacce resistenti alle radiazioni; il materiale, descritto qualche tempo fa su Physical Review Letters, è una combinazione di rame e niobio ma non può essere impiegato nei reattori nucleari in quanto assorbe neutroni e diventa radioattivo. Tuttavia il metodo collaudato per scoprire i vantaggi della accoppiata rame-niobio, potrà servire al gruppo di Demkowicz per trovare altri materiali più adeguati.

Naturalmente, da qui all’utilizzo pratico dei nuovi nano compositi passerà del tempo; forse anni: ma la strada è tracciata.