A prima vista non è un esperimento di quelli che lasciano sbigottiti quello appena pubblicato su Neuron da Earl Miller del prestigioso Pickower Institute for Learning and Memory del MIT di Cambridge, Massachusetts, ma a ben vedere gli spunti di riflessione che suscita, diretti e indiretti, non sono affatto di poco conto. I ricercatori hanno preparato due foto, diciamo A e B, e le hanno fatte vedere a una scimmia che poteva solo voltarsi o a destra o a sinistra; gli stessi ricercatori associavano, arbitrariamente, una sola risposta “corretta” ad A ed una a B: per esempio, risposta corretta per A voltarsi a sinistra e risposta corretta per B voltarsi a destra. Ogni volta che la scimmia rispondeva nel modo giusto riceveva un premio in forma di cibo, apprendendo pian piano come associare le foto ai movimenti. Il risultato è che misurando direttamente l’attività cerebrale della scimmia si è capito che in due zone del cervello (l’area prefrontale e i gangli della base) l’attività neuronale permaneva più a lungo per le risposte corrette; l’attività per quelle scorrette svaniva, invece, molto prima. Questo meccanismo di apprendimento per ricompensa e suoi correlati neuronali sono stati considerati come un modello generale per l’apprendimento. È vero?



Anche se questo esperimento è stato condotto sulle scimmie non abbiamo ragione di dubitare che meccanismi simili siano attivi nell’uomo, ma al di là del risultato empirico importante in ambito neuropsicologico, il problema di fondo che questo esperimento solleva è quali siano, in generale, gli stimoli che permettono l’apprendimento. Ripensiamo alla scena: una scimmia vede due foto, per lei totalmente equivalenti, e deve imparare ad associare un movimento arbitrariamente abbinato a una di esse: è questo che per lei significa agire in modo corretto o scorretto. Ma la nozione di errore non si può ridurre solo ad una reazione ad uno stimolo. Naturalmente, non è certo difficile immaginare situazioni analoghe nei bambini: aprire la bocca di fronte al cucchiaio che ti offre il cibo, salutare chi ti saluta, addormentarsi quando fa buio sono tutte situazioni nelle quali evidentemente lo stimolo esterno è per lo più chiaro e facile da fornire. Tuttavia, non appena si affronta la questione dell’apprendimento nel campo delle funzioni cognitive questo semplice meccanismo non diventa più credibile. Il caso più eclatante è senz’altro quello dell’apprendimento del linguaggio, la facoltà cognitiva per eccellenza che, tra l’altro, per via della sua struttura, distingue noi esseri umani da tutti gli altri esseri del creato.



Certo, ci sono casi dove la ricompensa per un errore è chiara anche in campo linguistico, tuttavia perché un errore sia ritenuto tale deve essere soddisfatta una condizione semplicissima ma fondamentale: l’errore deve poter essere individuabile da un “controllore esterno” che, evidentemente, possiede già un codice di riferimento. Ad esempio, se un bambino conia piangiuto, da piangere, su base analogica dalla coppia venduto/vendere, viene corretto dai genitori, ma è un fatto ormai più che scontato che la maggior parte delle regole che tengono insieme le parole nelle lingue umane sfuggono per la loro complessità ed astrattezza non solo ai parlanti ma anche alla maggior parte dei linguisti. Eppure – e questo è il dato strabiliante – nessun bambino in nessuna lingua del mondo commette tutti gli errori concepibili: gli errori che commette un bambino sono rigidamente ristretti in una gamma molto limitata. Se combiniamo questo fatto con l’impossibilità di riconoscere l’errore da parte di un parlante maturo possiamo solo arrivare alla conclusione che l’apprendimento, almeno quello del dominio cognitivo, non funziona in base ad uno schema di premiazione ma, come è stato predetto a partire dagli anni cinquanta da un linguista americano, Noam Chomsky, si basa su uno schema che precede l’esperienza ed è l’esecuzione di un progetto biologicamente determinato. Solo così si riesce a capire anche il risultato di un altro esperimento appena pubblicato sul Journal of Neuroscience nel quale Evelin Crane dell’università di Leiden dimostra, stavolta su esseri umani, che la risposta in termini di successi/insuccessi è molto attiva verso gli otto anni ma decade rapidamente dopo la pubertà: anche in questo caso la conclusione ricalca esattamente quanto un grande neurobiologo del Massachusetts General Hospital diceva sulla fine degli anni sessanta basandosi proprio sui lavori di Chomsky: più la ricerca procede, più diventa chiaro che il cervello non è una scatola amorfa adatta ad apprendere qualsiasi nozione a qualsiasi età; il cervello seleziona i dati compatibili con la sua struttura neurobiologica ed è soggetto ad un periodo finestra entro il quale può agire spontaneamente e modificarsi. Dopo la pubertà i meccanismi spontanei e la plasticità decadono sensibilmente e si deve ricorrere ad altre risorse.



Il Pickower Institute for Learning and Memory è un palazzo stupefacente costruito di rimpetto a un’altra meraviglia dell’architettura moderna, lo Stata Center, sempre al MIT dove lavora ogni giorno ancora Noam Chomsky: non deve essere un caso che questi temi vengano affrontati da due istituzioni così vicine, tanto vicine che spesso i ricercatori di un gruppo lo sono anche nell’altro, come il caso di Ken Wexler, caposcuola della linguistica sperimentale e allievo di Chomsky. Capire l’apprendimento, dunque, significa anche rimarcare una volta di più che l’unicità indiscussa della mente umana riflette un’unicità biologica dell’uomo sul creato precedente all’esperienza che possiamo (per ora) solo riconoscere come mistero assoluto.