Non capita spesso che un gruppo di scienziati ai massimi livelli internazionali si trovino a riflettere non già sui contenuti tecnico-scientifici dei loro studi, ma sul fenomeno stesso della scoperta scientifica nelle sue implicazioni sulla persona che scopre e per gli interrogativi che pone. È invece accaduto nei giorni scorsi in un convegno interdisciplinare svoltosi presso la Repubblica di San Marino, nella suggestiva cornice dell’antico monastero di Santa Chiara della locale Università, e organizzato dalla Templeton Foundation e dalla Associazione Euresis. Non è il primo anno che si tengono convegni di questo livello e con questi partner, ma questa edizione si è caratterizzata per il tema e per la modalità con la quale gli scienziati sono stati implicati nel dibattito. La scoperta come avvenimento era il titolo e il sottotitolo ne chiariva ulteriormente la finalità: Comprendere la dinamica dei progressi dell’uomo in campo scientifico e culturale; attorno al tavolo si sono confrontati per due intense giornate una dozzina di scienziati di spicco di varie discipline, tra cui due premi Nobel per la Fisica, Charles Townes e John Mather, il famoso paleoantropologo Yves Coppens, il vicepresidente dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) Piero Benvenuti, alcuni altri scienziati e anche teologi, come il premio Templeton John Polkinghorne.



Conversando con uno degli organizzatori, il professor Tommaso Bellini, fisico dell’Università degli Studi di Milano, abbiamo raccolti i punti salienti di una discussione che è andata ben oltre le aspettative. «Gli scienziati hanno condiviso i percorsi che hanno portato alle loro scoperte, carichi di imprevisti, di fantasia, di tenacia, e si sono interrogati su quali siano gli elementi che possono consentire la scoperta. Infatti c’è qualcosa di misterioso nello scoprire. Come ha suggerito Townes che, nel ripercorrere le tappe della scoperta del laser e nel raccontare le relative controversie, ha documentato quanto incerta sia, a priori, la possibilità di comprendere i fenomeni ottici e molecolari in questione. È questione quindi di saper mantenere una grande apertura mentale e di essere disposti a scommettere sul futuro».



Anche Mather, mentre ha descritto con grande precisione l’attività messa in campo per comprendere i processi che accadevano 14 miliardi di anni fa, a ridosso del Big Bang, ha parlato di un’esperienza sorprendente e ha ammesso di muoversi «sempre nella speranza di essere continuamente stupito».

Di notevole spessore anche la testimonianza di Coppens, che ha raccontato come fosse emozionante l’aver scoperto che l’apertura della Rift Valley (Africa) avesse portato alla più decisiva delle biforcazioni dell’evoluzione umana, quando i primati hanno registrato un notevole ingrandimento del cervello e ha preso l’avvio la produzione di utensili e strumenti. «Anche quando alcuni anni più tardi quella scoperta risultò essere solo un elemento parziale di un problema più complesso, la reazione dello scienziato francese è stata di ulteriore soddisfazione per il semplice fatto di aver capito di più, di aver fatto un passo avanti».



Riflettendo sul tema centrale del convegno, l’esperienza della scoperta, Bellini osserva come i grandi protagonisti della scienza riconoscano, con Einstein, che «l’eterno mistero della natura è il fatto che essa sia comprensibile»; oppure, riecheggiando una frase del fisico e matematico ungherese Eugene P. Wigner, che la possibilità di scoprire è un “dono meraviglioso”. «Ed è inevitabile chiedersi: da dove nasce? Questa domanda, che sorge dal vivo dell’esperienza degli scienziati, non sembra aver risposta all’interno della scienza. Ed è stato interessante seguire, qui a San Marino, il serrato dibattito circa le ipotesi esplicite e sottaciute che gli scienziati utilizzano nel loro operare».

Ad esempio, professor Owen Gingerich, storico della scienza della Harvard University, ha affermato che la scienza porta generalmente con sé un atto di fede. Nel caso di Keplero – di cui Gingerich è il massimo esperto mondiale – erano le convinzioni teologiche che lo portavano a credere che il sistema copernicano costituisse un passo avanti verso la scoperta della perfezione geometrica voluta da Dio. Per gli scienziati moderni è la fiducia nel valore “ontologico” delle leggi di natura, ovvero la convinzione che le leggi scientifiche che si scoprono siano una caratteristica della realtà e non solo del nostro pensiero, a costituire un vero atto di fede. «Un atto di fede che la maggior parte degli scienziati compie in modo istintivo e irriflesso, e che motiva la loro dedizione a ricerche che, al di fuori di questa fiducia nella possibilità di conoscere la “natura della natura” (per usare una espressione del grande fisico Richard Feynmann), rimarrebbe in molti casi un arrovellarsi attorno a sterili rompicapo».

In questo momento della scienza, in cui è ormai impossibile per chiunque possedere l’intera gamma del sapere scientifico e dove, d’altra parte, ci sono sempre più forti convergenze tra tecnologie e competenze, le scoperte richiedono un approccio “comunitario, olistico e umile”, come ha suggerito il biologo evoluzionista della Amherst University (Usa) David Lahti: «comunitario, quindi con èquipe di competenze diverse che operano insieme; olistico, perché i grandi avanzamenti della conoscenza scientifica accadono quando si travalicano i normali confini delle discipline e ci si pongono quesiti di più vasta portata; umile, cioè senza sopravvalutare le specificità del proprio sapere particolare».