Ha parlato ieri a Venezia davanti alla platea internazionale della quinta conferenza mondiale sul Futuro della Scienza, svolgendo una delle lecture di apertura, insieme a Luigi Luca Cavalli Sforza e a Craig Venter e alla presenza di due premi Nobel della medicina del calibro di James Watson e Renato Dulbecco. È Pier Paolo Di Fiore, fondatore e uomo di punta dell’Ifom (Istituto FIRC di Oncologia Molecolare) e ha parlato delle prospettive della medicina molecolare in un convegno (che proseguirà fino al 22 settembre) che ha come tema centrale la rivoluzione del Dna e il significato della recente ricerca genetica. Un campo tuttora molto aperto, se si considera che il ruolo di gran parte del Dna resta ancora da scoprire: la conferenza si concentrerà proprio su questo aspetto, cercando di valutare l’impatto della genetica sulla scienza, sulla tecnologia e sulla qualità della vita umana. Oggetto di specifico approfondimento saranno gli effetti della ricerca genetica sulla salute e sullo sviluppo della pratica della medicina. E qui si inserisce il contributo di Di Fiore, che abbiamo interpellato prima del suo intervento.
Quali sono i progressi recenti più significativi in medicina molecolare?
Ovviamente tutta la medicina non può essere altro che molecolare, e lo sta diventando sempre di più. L’identificazione di sempre più geni coinvolti in malattie (specialmente nel cancro) sta permettendo un sempre maggiore influsso di “farmaci molecolari”, cioè farmaci che permettono di colpire selettivamente un bersaglio molecolare alterato in una data malattia e non la cellula nel suo complesso. Questo si traduce in sempre maggiore efficacia e minore tossicità nella terapia. Oggi sono approvati dalla FDA (Food and Drug Administration) più di 200 farmaci molecolari, di cui più di una ventina per il trattamento dei tumori. La conoscenza sempre più approfondita delle alterazioni molecolari permette anche un uso più razionale dei farmaci. Questa è l’area della farmacogenomica che si ripropone di dare il farmaco giusto al paziente giusto nella dose esatta. I risultati sono già evidenti in alcuni campi della medicina e cominciano ad essere applicati nella pratica clinica anche in Oncologia. L’obiettivo ultimo di questo processo è la terapia personalizzata. Infine la medicina post-genomica sta compiendo importanti progressi nell’identificare i geni che predispongono a malattie complesse quali il diabete, l’ipertensione ed il cancro, con ovvie ricadute sui programmi di diagnosi precoce e prevenzione.
Nell’insorgere e nello svilupparsi delle malattie il ruolo dei fattori genetici e quello del contesto si integrano: ci sono malattie nelle quali i fattori genetici sono preponderanti e che quindi possono sperare negli sviluppi delle terapie geniche?
La componente genetica è preponderante (se non addirittura esclusiva) in molte malattie metaboliche. Lo è anche in malattie più complesse come la distrofia muscolare o il morbo di Parkinson. In altre malattie la situazione è più complessa. Nel cancro, per esempio, alcuni tumori sono su base ereditaria. In questi la componente genetica è prevalente. La maggior parte dei tumori, tuttavia, non è ereditaria. In questi tumori la componente ambientale e degli stili di vita è quindi la più rilevante. La terapia genica è onestamente ancora una prospettiva a medio-lungo termine, anche se comincia a funzionare in alcune situazioni circoscritte. Va detto però che la terapia genica (che si ripropone di modificare direttamente la funzione dei geni) non è l’unica arma a nostra disposizione per combattere le malattie genetiche. In molti casi, per esempio, i farmaci molecolari, citati prima, permettono di intervenire a livello di proteina (le proteine sono prodotte dai geni) anche senza modificare il gene malato. Si interviene, in pratica, più a valle, ma con gli stessi risultati (o con risultati comunque soddisfacenti).
Come si spiega la distanza che ancora intercorre tra le scoperte di laboratorio e le applicazioni in sede terapeutica?
Il problema principale è che noi non possediamo quello che in gergo si chiama il blueprint della cellula, cioè il suo schema di funzionamento generale. Un esempio potrà essere utile. Una macchina complessa, immaginiamo un computer o un aereo, è costruito sulla base di un piano disegnato a tavolino. Cioè noi prima disegniamo il piano e poi costruiamo la macchina. Quando qualcosa si rompe, il piano ci aiuta a sapere come intervenire e dove. In pratica la conoscenza del piano mi aiuta a sapere che se devo aggiustare l’impianto elettrico di un aereo non devo preoccuparmi di conoscere le leggi della meccanica dei fluidi che sono il principio sulla base del quale un aereo vola. Con la cellula la cosa è diversa. Il piano non l’abbiamo fatto noi, e quindi possiamo solo cercare di “ricostruirlo” logicamente (sulla base dei dati sperimentali). Questo significa che non abbiamo nessuna conoscenza a priori che una data scoperta sia immediatamente applicabile. In pratica è come se (mantenendo l’esempio precedente) noi scoprissimo come funziona il circuito elettrico dell’aereo…ma poi siccome non possediamo il piano generale dovessimo andare a controllare uno per uno se gli altri elementi (meccanica dei fluidi, computer di bordo, distribuzione dei pasti, uniformi del personale etc.) dipendono dal circuito elettrico. Tradotto nella cellula questo significa che manipolare un pezzo della cellula può portare a conseguenze non previste e che quindi dopo una scoperta, la fase di applicazione è lunga ed complessa. Inoltre anche quando una scoperta di laboratorio è più o meno “finale”, per tradurla in pratica occorre tempo. Ad esempio sviluppare un farmaco contro una proteina malata può richiedere una decina di anni. Uno degli obiettivi della ricerca molecolare è proprio quella di ridurre questa latenza con processi come il “rational drug design”. Infine anche quando abbiamo un farmaco la sperimentazione nell’uomo deve procedere con estrema cautela, secondo rigide normative che sono state create per proteggere i malati. Questi tempi sono in larga parte incomprimibili, ed è un bene che lo siano.
Possiamo considerare prossimo l’avvento della medicina personalizzata?
È bene sottolineare che, come sempre in medicina, i progressi si valutano malattia per malattia e spesso per sottotipi di malattia. Questo per dire che non ci sarà un giorno in cui sentiremo l’annuncio «da oggi è in vigore la terapia personalizzata», ma piuttosto che sempre più terapie personalizzate entreranno nella pratica clinica nel tempo. Detto questo, già molte malattie, incluso alcuni tipi di tumori, si giovano di personalizzazione della terapia (sapere chi è il paziente giusto per il farmaco giusto).
In vista di un crescente sviluppo della medicina molecolare e dell’affermarsi della medicina personalizzata, come vede la collaborazione tra enti di ricerca, servizi sanitari e società farmaceutiche, nella situazione italiana?
L’Italia è rimasta largamente esclusa dagli avvenimenti della “rivoluzione genomica”, un evento di portata epocale al quale hanno partecipato e partecipano tutti i paesi avanzati ed anche molte delle economie emergenti. La cosa non è di per sé particolarmente sorprendente, ma va nel conto di un generale e diffuso disinteresse per la ricerca e per la cultura scientifica in generale. Dal punto di vista pratico non ne soffrirà la salute degli Italiani. Le scoperte che avvengono altrove saranno tradotte altrove in risultati, ma verranno poi immediatamente importate nella nostra pratica clinica e nel nostro servizio sanitario. Ne soffriranno in qualche modo i nostri “conti” dal momento che ogni cosa che si importa costa (anche le cure, in molti modi non apparenti ma sostanziali). Quindi il non aver investito prima ci renderà meno ricchi dopo.