«Se non agiremo insieme con coraggio e rapidità rischiamo di consegnare le generazioni future a una catastrofe mondiale». Con queste parole Barack Obama si è rivolto a oltre cento capi di Stato presenti al summit dell’Onu sul clima mondiale. Parole che pesano quasi come un ultimatum contribuendo, come se ce ne fosse bisogno, ad aumentare la preoccupazione della comunità umana sullo stato di salute del proprio pianeta. A fare eco al presidente degli Stati Uniti il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon sottolineando la “lentezza glaciale” con la quale proseguono i negoziati fra le varie nazioni per raggiungere l’accordo del 2013 a Copenaghen che andrebbe a sostituire il protocollo di Kyoto. Ma la situazione è davvero così compromessa? In parte sì, spiega Franco Prodi, ma non certo per la mancanza di protocolli di quel tipo. Soprattutto occorre fare meno previsioni e lavorare di più.



 

L’appello congiunto di Barack Obama e Ban Ki-moon al summit mondiale dell’Onu sul clima parla di “catastrofe mondiale” se non si agirà in fretta per cambiare la situazione. Quanto sono vere queste affermazioni? 

Non sono né vere né false. Purtroppo siamo nella situazione in cui tali affermazioni non possono essere verificate. Bisogna precisare una volta per tutte che le nostre attuali conoscenze del clima non sono così approfondite da consentirci di fare una previsione seria di come sarà il nostro pianeta da qui a cinquant’anni.



Anche lei indica però come urgente un maggior incremento degli studi sul clima da parte di tutte le nazioni. Per quale motivo dal momento che non sappiamo se andiamo o meno incontro a un pericolo?

Le due cose non sono in contrapposizione. Dire che non siamo in grado di sapere come sarà il clima futuro non significa negare l’inquinamento, il grave stato in cui versa il nostro pianeta. Questi sono dati di fatto. Siamo certi del fatto che l’uomo industriale si trovi attualmente in “competizione” con la natura per cambiare il clima. La produzione di gas, non solo serra ma di tutti i tipi inquinanti, è alle stelle. Quello che manca è però una certa conoscenza degli effetti di queste emissioni. In poche parole non siamo nelle condizioni per quantificare il cambiamento dell’atmosfera terrestre per i prossimi anni. Peraltro dietro ai grandi proclami di preoccupazione per lo stato delle cose si nasconde in realtà un grande disinteresse nei confronti del problema. Si parla in generale, ma si evita di incidere nel particolare. 



 

Che cosa intende dire?

Che, siccome ci sono dei problemi ecologici oggettivamente misurabili, trovo strano che non si possa raggiungere subito un accordo internazionale sullo stile di quello di Kyoto. Un accordo in cui si prospetti un cambiamento dell’idea del mercato in cui questo dev’essere temperato dalla salvaguardia del pianeta. Un accordo in cui si esiga l’adesione dei Paesi che ancora non si interessano all’ambiente, come India e Cina. Questi sono passaggi che occorrerebbe effettuare subito.

Lei ha toccato un elemento controverso, la posizione non allineata di due Paesi che ospitano più di un miliardo di abitanti, India e Cina. Per quale motivo i loro governi agiscono in questo modo?

India e Cina sono responsabili, insieme alla Russia che ha sempre avuto un atteggiamento molto ondivago nei riguardi dell’ambiente, del fallimento dell’accordo di Kyoto. Il loro ragionamento è impostato ostilmente nei confronti dell’Occidente. All’Occidente attribuiscono la responsabilità dell’inquinamento terrestre durante la fase dello sviluppo economico. Ora, dicono, tocca a loro svilupparsi. E lo fanno in barba ai provvedimenti che salvaguardano l’ambiente. Ma questo non ha senso dal punto di vista ambientale. La natura non è burocratica, non distribuisce turni. Tutti devono produrre dell’acciaio senza immettere composti chimici nell’atmosfera, tutti devono decontaminare le acque prima che arrivino nei fiumi, tutti devono essere responsabili che le acque sotterranee non siano inquinate. La nube nera dell’Asia, i fiumi che sono fogne a cielo aperto, i metalli pesanti presenti nei pesci. Ci sono delle oggettività che non dovrebbero essere fonte di controversia. Per questo c’è urgenza di un accordo internazionale blindato e rispettato da tutti. E di questi particolari nessuno parla.

 

Per quali motivi non siamo in grado di anticipare le condizioni climatiche dei prossimi anni?

 

In primo luogo c’è un’inadeguatezza a livello planetario della ricerca sul clima.

Vorrei fare una premessa su quello che è successo dalla fine degli anni ’70 ad oggi anche all’interno dell’Onu. La riflessione sul clima si è politicizzata. Si asseriscono principi in base a ideologie politiche da una parte e dall’altra. Questo non è il modo naturale e normale con il quale progredisce la scienza. La conoscenza del clima cresce con le proprie procedure che passano appunto dalle riviste scientifiche nazionali e internazionali, le conferenze promanate dalle associazioni scientifiche internazionali. Mentre tutto questo modo di fare informazione sull’ambiente si è sviluppato dal rapporto fra scienza e politica internazionale, soprattutto dal connubio fra scienza e Nazioni Unite.

 

Entriamo nel dettaglio, che cosa esattamente è stato compromesso a livello di ricerca?

 

In senso stretto niente. C’è piuttosto un errore di prospettiva per cui si parla di conseguenze e di scenari con una conoscenza di base che è incompleta, profondamente limitata. Il clima è un sistema non lineare, ma complesso. Gran parte dei ragionamenti portati in piazza sono basati ad esempio solo sull’aumento dell’anidride carbonica e non su tutti gli altri gas serra. Pochi comprendono come il sistema clima compia le sue retroazioni e i suoi adattamenti. Il discorso, volendo entrare nello specifico è un pochino complesso. Ma comunque la mia perplessità è che si crei un allarme senza conoscere gli scenari. Si badi bene che questa situazione non avviene solamente in Italia, è figlia di una mentalità mondiale.

 

Che cosa manca quindi a una corretta informazione e ricerca scientifica?

 

Strutture che collaborino attivamente come succede un po’ in Giappone, Germania, Inghilterra e Stati Uniti. Un tipo di collaborazione fra istituti di ricerca internazionali come quelli presenti in questi paesi andrebbe di gran lunga ampliato. Mancano numerosi dati, interi territori e climi del nostro pianeta sono per così dire sconosciuti, nel senso che sono poco studiati con rigore metodico. Ma la tendenza generale è quella di passare la mano agli esperti di adaptation e remediation. Spesso si sentono queste due parole tanto di moda. Ora: coloro che si occupano di questi aspetti non sono i giusti addetti ai lavori. Oggi come oggi la parola è data a una moltitudine di persone che non sa come funziona il sistema clima, soprattutto dal punto di vista fisico: bilanci di radiazione, rapporto fra energie ed atmosfera. Un vero studio tecnico dovrebbe invece concentrarsi sui punti che non si conoscono ancora. Bisogna creare un supersistema in cui si possa accelerare la risposta a queste domande. La scienza non procede per maggioranze politiche alle quali dar ragione.