Le sorprese dall’esplorazione dello spazio non vengono soltanto dai pianeti lontani o dai sistemi galattici: anche la nostra vecchia Luna può provocare sussulti di novità. Come quelli destati ieri all’annuncio dato dalla Nasa in una conferenza stampa preannunciata con enfasi da giorni e che ha comunicato nientemeno che la scoperta di acqua sul suolo lunare. Del fatto che ci potesse essere questa preziosa sostanza sul nostro pallido satellite si parlava da tempo ma non c’era mai stata la possibilità di stanare i dati utili e di offrire prove convincenti. Ora la serie di dati convergenti prodotti da tre missioni interplanetarie ha permesso di fare goal e di pubblicare i risultati sulla rivista Science.
Le tre missioni sono la Chandrayyan 1, dell’agenzia spaziale indiana lanciata nel 2008, la Deep Impact, lanciata dalla Nasa nel 2005 verso la cometa Tempel 1, e la Cassini, una missione congiunta NASA, ESA (Agenzia Spaziale Europea) e ASI (Agenzia Spaziale Italiana) dedicata allo studio di Saturno e dei suoi satelliti. Tutte e tre sono dotate di spettrometri, strumenti in grado di scomporre la radiazione riflessa dalla superficie lunare e quindi di individuare le impronte caratteristiche delle diverse molecole, che interagiscono con la luce ciascuna in un modo suo tipico. In particolare il punto di forza di Cassini è lo spettrometro VIMS (Visible and Infrared Mapping Spectrometer: uno strumento multispettrale operante nella bande dal Vicino Infrarosso al Vicino Ultravioletto che consentirà prossimamente di caratterizzare la composizione chimica della superficie di Titano, della sua atmosfera e degli anelli di Saturno. Il VIMS è una collaborazione tra Usa e Italia ed è stato realizzato dall’allora Galileo Avionica, con il contributo della Francia.
Col vice commissario dell’Asi, l’astrofisico Piero Benvenuti, commentiamo l’annuncio di ieri e le anticipazioni dell’articolo di Science. «In effetti i dati di cui si parla sono quelli raccolti da Cassini nel 1999, quando è passata vicino alla Luna nella manovra detta di flyby che sfrutta l’effetto gravitazionale del satellite per indirizzare il viaggio. Sono dati molto importanti ma anche molto delicati da analizzare e interpretare. E infatti ci sono voluti dieci anni di elaborazioni e anche di discussioni tra gli astrofisici per arrivare alle conclusioni comunicate dalla Nasa». Le conclusioni, frutto della stretta correlazione dei dati rilevati dalle tre missioni, sono che in diversi punti della superficie lunare sono presenti composti volatili basati sul legame tra idrogeno e ossigeno che è caratteristico della molecola d’acqua.
Benvenuti mette subito in guardia dal lanciarsi in fantasiose immaginazioni che poco hanno a che fare con la scoperta: «Non dobbiamo pensare alla presenza di acqua secondo l’immagine che ne abbiamo qui sulla Terra; non si tratta di riserve in grandi quantitativi e tanto meno di qualcosa di simile ai nostri laghi o mari. Sono tracce, sotto forma di molecole inglobate nelle rocce lunari superficiali e distribuite un po’ ovunque ma poi progressivamente concentratesi nei poli, dove le condizioni di bassa temperatura ne consentono la conservazione».
Una scoperta è sempre una scoperta. Tuttavia il fatto che ci siano tracce di acqua sulla Luna non deve meravigliare più di tanto: «La presenza di acqua nel Sistema Solare e un po’ in tutto l’universo è un fatto assodato e questa ne è una ulteriore conferma. Del resto la Luna, data la mancanza di atmosfera, è stata più che mai esposta da sempre al bombardamento di meteoriti e comete e le comete, si sa, sono fatte prevalentemente d’acqua: era difficile pensare che non rimanesse qualcosa di quei bombardamenti. Il problema è semmai capire bene a quali condizioni l’acqua può permanere sulla superficie di un pianeta o di un satellite».
Qui si apre tutto il lavoro di sviluppo dei risultati; un lavoro basato anzitutto sul confronto tra ciò che si è potuto misurare sulla Luna e quanto è emerso e sta emergendo dalle esplorazioni degli altri pianeti e dei loro satelliti. Sarà importante capire quanto hanno inciso le diverse situazioni in cui si trovano i corpi nel Sistema Solare e valutare, ad esempio, l’incidenza del vento solare che interagisce molto più pesantemente sulla Luna che non, ad esempio su Marte o sulle lune di Giove e Saturno.
L’aspetto di questa scoperta che però più colpisce Benvenuti, prima ancora di pensare a possibili conseguenze pratiche (se mai ce ne saranno), è il contributo che ne potrà derivare sul nostro modo di pensare all’origine della Luna. «Per come appaiono i dati presentati in queste ricerche, ci sarà molto da rivedere nelle teorie sulla formazione della Luna. Attualmente ci sono due scenari prevalenti sull’argomento. Uno considera la Luna come un pezzo di Terra, staccatosi dal noi circa quattro miliardi di anni fa, quando la Terra era ancora in formazione, a causa di una gigantesca collisione con un corpo di grandi dimensioni; in tal caso, al momento della nascita la Luna non avrebbe potuto avere acqua in superficie, essendo costituita da magma ad altissime temperature. L’altra tesi parla invece della formazione lunare come di un processo di accrescimento, simile a quello che ha originato al Terra e altri pianeti. Ebbene, i dati raccolti dalle tre sonde portano tutti a ritenere che l’acqua rilevata sulla Luna non sia sta portata lì dall’esterno, ad esempio dalle comete, ma sia primigenia, sia stata cioè già presente all’atto della formazione del nostro satellite. La bilancia quindi si sposta decisamente dalla parte del seconda scenario, quello cioè dell’accrescimento e non del distacco dalla Terra-madre». Ci vorranno ancora altri studi e analisi accurate per avvalorare queste tesi e perfezionare il racconto della genesi lunare; tuttavia con questi risultati si è fatto un primo passo in una nuova direzione.
Nel frattempo c’è un altro motivo di soddisfazione da parte di Benvenuti: è quello legato alle prestazioni della sonda italiana: «Ormai possiamo affermare che la rilevazione di acqua nel Sistema Solare è una questione italiana: abbiamo dimostrato di avere la strumentazione e il know how adeguati e di poterli mettere a disposizione della comunità scientifica internazionale».