In vista dell’incontro sul clima nel prossimo dicembre a Copenhagen, per negoziare restrizioni a ciascun Paese, un gruppo di scienziati ambientali guidato da Johan Rockstrom di Stoccolma ha cercato di stabilire dei limiti per i processi bio-fisici che determinano la capacità della Terra di autoregolarsi (lo studio è descritto nell’ultimo numero della rivista Nature). Sono stati presi in considerazione dieci processi. Di questi, tre (cambiamenti climatici, velocità di perdita della biodiversità, ciclo dell’azoto) hanno già superato le soglie critiche. In particolare: la concentrazione atmosferica dell’anidride carbonica è a livello di 387 parti per milione, contro le 350 proposte da Rockstrom e le 280 della situazione preindustriale; il numero di specie per milione che scompaiono annualmente è pari a 100, contro le 10 proposte e una sola a livello preindustriale; infine la quantità di azoto sottratta all’atmosfera per uso umano, che in epoca preindustriale era nulla, ora è 121 contro le 35 previste dal modello.
Gli altri sette processi sembrano presentare ancora dei margini di sicurezza; ci limitiamo a darne l’elenco: ciclo del fosforo, impoverimento dell’ozono stratosferico, acidificazione dell’oceano, consumo dell’acqua dolce, cambiamento d’uso del terreno (conversione a uso agricolo), immissione di aerosol nell’atmosfera, inquinamento chimico.
È un tentativo di misurare come l’umanità sta sollecitando il sistema Terra. Finché si rimane entro opportuni limiti per i dieci processi considerati, per ogni variazione si innescano dei meccanismi di compensazione che permettono di mantenere un equilibrio dinamico che assicuri la vivibilità del sistema.
I limiti proposti corripondono alla rottura di questo equilibrio dinamico con conseguenze non valutabili in quanto si innescano dinamiche nuove che potrebbero generare disastri ambientali.
Questi limiti dipendono dai modelli adottati; essi non risultano da un esperimento già effettuato. È questa la differenza rispetto a una sperimentazione di laboratorio, in cui, da Galileo, la scienza moderna ha imparato a impostare esperimenti significativi e ripetibili, in modo da estrarre misure affidabili.
Dobbiamo utilizzare i numeri acquisiti in esperimenti di laboratorio e l’abilità raggiunta in certe procedure per andare oltre e tentare di formulare previsioni non galileiane. Ci troviamo in questa situazione quando formuliamo modelli di evoluzione cosmologica; ed ora quando poniamo dei limiti al sistema Terra.
All’inizio degli anni ’70 del secolo passato un gruppo di scienziati (il cosiddetto Club di Roma) aveva tentato di delineare dei limiti oltre i quali i processi antropogenici (indotti cioè dall’attività umana) avrebbero dato luogo a disastri. Quelle valutazioni di quarant’anni orsono erano errate in quanto basate sulla variazione indipendente di ciascuna variabile, senza considerare la rete non lineare di mutui accoppiamenti che crea condizionamenti reciproci.
Negli ultimi quattro decenni, abbiamo avuto nella scienza un’applicazione a tutti i campi della dinamica non lineare (caos deterministico e complessità): invece che studiare il singolo individuo, isolandolo in un esperimento di laboratorio dopo averlo sottratto alle interazioni con l’ambiente, si è spostata l’indagine agli effetti di folla: dalla rete Internet al traffico aereo e automobilistico, dalla cosiddetta intelligenza di sciame in insetti o uccelli al controllo delle epidemie mediante vaccinazione.
È ovvio che nel formulare modelli di comportamenti globali occorre ricorrere a competenze disparate, confrontando dati acquisiti in contesti diversi. Si pensi all’enorme rivoluzione concettuale legata alla scoperta di reti di interazioni che attivano i geni nello sviluppo di un organismo biologico (la “genomica”, che ha smantellato il cosiddetto dogma della biologia molecolare e cioè: “ad ogni gene corrisponde una proteina”).
E qui, in vista di Copenhagen, si pone una domanda cruciale: la rete dei dieci processi antropogenici elencati è sufficiente per formulare previsioni affidabili sul futuro del sistema Terra?