Sarà un’osservazione banale, ma la Natura è piena di fenomeni che a noi paiono strani, eccezionali soltanto a causa della loro diversità da quanto più immediatamente ci circonda. Prendiamo il Sole, per esempio. Una sfera di plasma sostenuta dalla fusione termonucleare dell’idrogeno, con temperature al centro dell’ordine dei 20 milioni di gradi, una massa un milione di volte superiore a quella della Terra… una cosa grandiosa! Eppure dovremmo considerare il Sole come la suprema banalità: nell’Universo di oggetti come il Sole, cioè di stelle, ce ne sono miliardi di miliardi. Anzi, se c’è una cosa che la natura tende a produrre sempre e comunque sono proprio le stelle. Dato che la gravità è sempre attrattiva, nulla di più facile che vedere formarsi appena possibile delle trappole gravitazionali in cui la materia finisce per cadere dentro per poi riscaldarsi e brillare, cioè, tipicamente, delle stelle.
Quindi, stelle dappertutto, o quasi. Uno dei problemi classici che gli astrofisici devono fronteggiare è come mai si osserva un sacco di materia che non è stata ancora intrappolata nelle stelle, ma resta diffusa nello spazio (nelle nebulose, per esempio). La fisica fornisce almeno due possibili meccanismi in grado di impedire alla gravità di prendere sempre il sopravvento: il campo magnetico e la turbolenza. Ancora oggi alle conferenze specialistiche si fronteggiano i sostenitori delle due scuole, con la turbolenza che al momento va molto di moda.
Ma ovviamente bisogna stare attenti: una volta trovati i meccanismi in grado di prevenire la formazione stellare, si pone il problema opposto: come mai certe stelle riescono a formarsi lo stesso? Cioè, cosa può venire in aiuto alla gravità, rompendo il delicato equilibrio di forze e spingere una nube di gas a collassare su se stessa gravitazionalmente? Per rompere un equilibrio occorre un evento esterno, qualcosa che fornisca il “trigger” (cioè l’innesco) alla formazione stellare. Da dove può arrivare questo aiuto? I candidati non mancano: le galassie stesse, innanzitutto, si strutturano con quei caratteristici bracci a spirale che rappresentano zone di maggiore densità, e quindi pressione, il cui passaggio può triggerare (mi si passi il comodo inglesismo) la formazione stellare. Poi l’esplosione di una supernova fornisce un altro meccanismo sicuramente in grado di fungere da trigger. Un altro possibile meccanismo è fornito dalle stelle vicine, soprattutto quelle di massa più grande.
Una stella di grande massa vive una vita breve e intensa. Nei pochi milioni di anni che ha a disposizione, emette una quantità enorme di radiazione ultravioletta, fotoni “duri” in grado di ionizzare l’idrogeno e dissociare le molecole (e anche fare male alla pelle). Questi fotoni possono rapidamente evaporare una nube di gas, esercitando una pressione che può triggerare la formazione stellare. Una bella idea, ma come sapere se funziona davvero? Un risultato interessante in questa direzione è stato recentemente ottenuto da un team americano che ha utilizzato i telescopi spaziali Chandra (per i raggi X) e Spitzer (per l’infrarosso) per osservare una regione di formazione stellare chiamata Cepheus B. Cepheus B è dominata da una stella di grande massa, venti volte più grande del Sole, e quindi vecchia di pochi milioni di anni. Stelle di questo tipo sono sempre accompagnate da stelle più piccole, più o meno coetanee. Su di esse si è concentrata l’attenzione dei ricercatori, interessati a capire il tipo di relazione che intercorre tra le stelle piccole e lo stellone.
Il primo problema è stato trovare le stelle giovani tra le miriadi di stelle visibili con i telescopi nello stesso campo. Per questo hanno usato i raggi X: le stelle giovani emettono di solito una quantità anomala di raggi X: giovani e irrequiete, si potrebbe dire. Una volta identificate, come sapere un po’ più precisamente la loro età? Per questo hanno usato la radiazione infrarossa che proviene dai dischi che le circondano, quei dischi in cui probabilmente si stanno formando pianeti. Sappiamo che statisticamente i dischi vengono dissipati in 5-10 milioni di anni. Dividendo le stelle in tre zone a seconda della distanza dalla stella grande, hanno misurato, per ciascuna zona, la frazione di stelle che hanno ancora un disco in grado di emettere radiazione infrarossa. è risultato che le stelle più vicine hanno perso quasi tutte il disco, mentre quelle più lontane ce l’hanno ancora. Quindi, le più vicine sono vecchie e le più lontane sono giovani. Ecco quindi una “prova”, diciamo così, del meccanismo: la luce della stella di grande massa ha progressivamente scavato nel mezzo interstellare, dissolvendolo e triggerando qua e la il collasso gravitazionale delle nubi in equilibrio che ha trovato per strada, cominciando dalle più vicine per finire alle più lontane. Nelle più vicine il disco è scomparso e magari i pianeti si sono già formati, nelle più lontane sono invece ancora in gestazione col disco a fare da placenta.
Una bella misura, sicuramente, ma sarà il caso di confermare indipendentemente un certo numero di assunzioni. Per esempio, mi sembra che la correlazione tra presenza di disco ed età possa facilmente essere falsata dalla presenza di forte flusso ultravioletto della stella di grande massa, che sappiamo essere in grado di distruggere rapidamente i dischi. Nuovi dati e nuove risposte che generano nuove domande. Il gioco della nostra curiosità e della seduzione che su di essa esercita la Natura, quindi, continua. Tutto è una sorpresa, anche quando si tratta soltanto del fenomeno più banale dell’Universo come la nascita di una stella.