Non era ancora terminata la coreografica conferenza di Copenhagen quando al congresso dell’American Geophysical Union aSan Francisco Roy Spencer – dell’Università dell’Alabama e responsabile di Aqua, uno dei satelliti che da anni tengono sotto controllo la temperatura atmosferica – esprimeva i suoi dubbi sull’adeguatezza dei modelli finora utilizzati per descrivere la relazione fra l’aumento della anidride carbonica in atmosfera e i “meccanismi” di formazione delle nuvole. È un argomento che si presta bene per riportare l’attenzione sulla controversia scientifica, per niente risolta, che oppone quanti sono convinti che i cambiamenti del clima siano totalmente conseguenza delle attività umane e chi invece ritiene che facciano parte di una variabilità naturale, della quale non si sono ancora comprese le cause, ma in cui l’uomo e le sue emissioni di gas in atmosfera, potrebbero avere un ruolo, se non nullo, per lo meno marginale.



Si tratta insomma di capire se è corretto il modo in cui assumiamo che funzioni il sistema climatico. L’influenza della temperatura sulle dinamiche di formazione delle nuvole costituisce proprio uno degli argomenti meno conosciuti e di maggior dissenso fra gli scienziati, pur essendo considerata una delle cause principali del riscaldamento globale indotto dalla CO2. In effetti, come é ben noto agli scienziati, anche se raramente citato, l’effetto della CO2 in­­ sé stesso è modesto, anche ipotizzando aumenti consistenti del suo contenuto atmosferico.



Vale la pena riferirsi, in proposito, ai dati raccolti trivellando le calotte ghiacciate dell’Antartide e della Groenlandia, che hanno avuto un notevole peso nel formare la diffusa convinzione che la CO2 sia stata un fattore dominante nei cambiamenti climatici passati e lo possa essere in quelli attuali: ebbene, dai dati sembrerebbe più probabile che nel corso delle ere geologiche sia stata la temperatura a pilotare le variazioni di CO2, mentre appare eccessivamente speculativa l’idea opposta. Ma anche chi usa i dati delle trivellazioni per sostenere che il riscaldamento pilota l’attuale aumento di CO2 cade in contraddizione: infatti le variazioni di concentrazione misurate nei ghiacci sono dell’ordine di 8-10 ppm per grado centigrado, mentre il riscaldamento globale degli ultimi cento anni, che è inferiore a 1 °C, è stato accompagnato da un incremento di concentrazione di CO2 dieci volte superiore.



 

Bisogna inoltre ricordare che gli incrementi della temperatura calcolati tramite i modelli matematici di simulazione (negli studi dell’IPCC ci sono almeno una ventina di differenti modelli) sono il risultato dell’assunto che esista un feed-back positivo fra l’aumento della CO2 e i “meccanismi” di formazione delle nuvole. Semplificando molto il discorso si può dire che ad ogni aumento, anche lieve, delle temperatura, corrisponderebbe una riduzione della copertura nuvolosa globale, specie quella a quote medio-basse, e un corrispondente aumento della radiazione solare che raggiunge la superficie del pianeta, con un effetto amplificante dei fenomeni; questo sì in grado di provocare variazioni ben più consistenti della temperatura.

Ora, secondo alcuni scienziati, le evidenze scientifiche che le cose vadano veramente così sono scarse (la maggior parte degli autori avrebbe interpretato in maniera parziale, e quindi errata, le osservazioni satellitari), mentre ci sarebbero indizi che possa succedere esattamente il contrario, cioè che il feed-back delle nuvole sia negativo e quindi che il complesso meccanismo di formazione delle nuvole possa in qualche modo fare da “termostato” al possibile aumento di temperatura indotto dall’aumento dei gas serra. Purtroppo un approfondimento del problema non è possibile se non intensificando gli studi e le analisi sui dati della nuvolosità globale, che pure sono raccolti da molti anni da diversi satelliti artificiali (ad esempio il satellite Aqua della Nasain orbita dal 2002), ma che richiederebbero ben altri sforzi e risorse di quelle attualmente dedicate a questo compito.

In sostanza, da osservatori esterni, non possiamo “avere la testa fra le nuvole” e pensare che sia necessario, come nelle antiche civiltà, “fare sacrifici alle divinità naturali” nel tentativo di guadagnarsi la benevolenza della natura (leggasi: centinaia di miliardi di euro per il contenimento delle emissioni di CO2, che sarebbe piuttosto utile spendere per il controllo delle vere emissioni inquinanti o per mitigare gli effetti degli eccessi del clima).

 

 

 

Ci sembra di capire invece che l’ambiente scientifico dovrebbe mantenere la testa “un po’ più rivolta alle nuvole”, cioè alla comprensione dei fenomeni fisici che sono alla base dei modelli matematici, piuttosto che ai modelli stessi. Ciò non tanto in quanto ci manchi la fiducia nella validità degli strumenti di simulazione matematica, che danno continuamente prova della loro affidabilità (se ben utilizzati) in numerosi campi della scienza e della tecnologia; quanto piuttosto perché tali modelli, oltre ad applicarsi ad un sistema di spaventosa complessità come è quello climatico, sono basati su premesse sulla cui validità non si è (ancora) raggiunta una sufficiente certezza. Vi fidereste di chi asserisse di aver realizzato un modello matematico del funzionamento del cervello umano e di essere in grado, in base a qualche misura, di prevedere cosa voi penserete da qui a 24 ore? Certamente non vi fidereste, a meno che qualcuno non vi dimostri con un esperimento di essere veramente in grado di farlo; ed avreste tutto il diritto di pretenderlo anche se non siete degli specialisti di neuroscienze.

Ciò vale anche per i modelli climatici. E ciò a maggior ragione dopo gli interrogativi suscitati da quella inquietante fuga di notizie che ha preso il nome di Climategate e le accuse rivolte, proprio nel pieno del summit di Copenhagen (con una lettera aperta firmata da Stephen Fielding e Lord Christopher Monckton), al presidente dello IPCC Rajendra Pachauri, di avere troppi interessi personali nella cosiddetta “industria del clima”.

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