Simile a un grazioso dipinto ad acquerello, la Nebulosa di Orione è uno degli oggetti più fotogenici dell’universo. Visibile a occhio nudo nell’omonima Costellazione, questa nebulosa è da sempre bersaglio degli sguardi appassionati dei più o meno giovani che di sera escono ad ammirare lo splendore della volta celeste.
Oltre a essere un vero e proprio spettacolo della natura dal punto di vista estetico, la Nebulosa di Orione è un oggetto estremamente interessante anche dal punto di vista scientifico. A una distanza di poco meno di 1.500 anni luce da noi, è la più vicina fra tutte quelle regioni che danno vita a stelle molto massicce, con una massa cioè di alcune decine di volte superiore a quella del nostro Sole. Diversi studi hanno mostrato che la nascita di stelle massicce è sempre accompagnata dalla nascita di un grandissimo numero di stelle meno massicce e più simili al Sole – circa 3.000 stelle nel caso di Orione; ne segue che la maggior parte delle stelle presenti nell’universo devono essersi formate in questo tipo di regioni.
Per tale motivo, la Nebulosa di Orione è un candidato privilegiato per lo studio dei meccanismi connessi alla formazione stellare.
Nel processo che porta alla nascita di una stella, parte del materiale della nebulosa (gas e polvere) che si trova in prossimità della stella nascente acquista una notevole velocità di rotazione e va così a formare un cosiddetto disco circumstellare. Mentre una certa frazione del materiale presente in questo disco rotante si impatta sulla stella centrale, il restante materiale rimane più a lungo nel disco; fenomeni quali l’aggregazione e coagulazione dei grani di polvere o il collasso di regioni ad alta densità all’interno del disco daranno vita a oggetti via via più grandi, fino alla possibile formazione di pianeti rocciosi, visti come enormi grani di polvere, o gassosi, in cui la maggior parte della materia è contenuta in un’atmosfera di gas.
In quanto potenziali culle per la formazione di sistemi planetari, questi giovani dischi circumstellari vengono comunemente chiamati all’interno della comunità scientifica dischi protoplanetari.
Anche il nostro Sistema Solare ha avuto origine da un disco protoplanetario e per investigare i processi fisici che ne hanno causato la formazione è dunque necessario osservare questi dischi presenti nell’universo.
Negli ultimi anni un gruppo di astronomi guidato da Massimo Robberto dello Space Telescope Science Institute di Baltimora (Usa) ha utilizzato il celebre Telescopio Spaziale Hubble per osservare la Nebulosa di Orione. Uno dei risultati più spettacolari di questo progetto, che risulta essere tutt’ora il progetto astronomico più lungo mai dedicato dall’Hubble allo studio della formazione di stelle e pianeti, è la pubblicazione di un catalogo di 30 nuove immagini di dischi protoplanetari, recentemente apparso sul sito web europeo dell’Hubble. In queste immagini si possono identificare due diverse tipologie di dischi: quelli che si trovano vicino alla stella più massiccia della regione, Theta 1 Ori C, e quelli che sono invece più lontani da essa. Questa stella estremamente calda (40.000 °C in superficie) e brillante (200.000 volte più luminosa del Sole) oltre ad accendere il gas interstellare, rendendo la Nebulosa di Orione così colorata, riscalda in modo molto efficiente anche il gas presente nei dischi protoplanetari a lei più vicini.
In questi dischi surriscaldati la temperatura diventa talmente alta che, a causa dell’elevata agitazione termica, parte del materiale riesce a sfuggire all’attrazione gravitazionale della stella centrale ed esce quindi dal disco. Questo fenomeno viene detto fotoevaporazione. Una volta che questo materiale è fuoriuscito dal disco, viene intercettato e così ionizzato dalla radiazione più energetica emessa da Theta 1 Ori C. La zona in cui avviene la ionizzazione è quella che appare così brillante nelle figure dei dischi fotoevaporati.
I dischi che sono invece più distanti da Theta 1 Ori C non ricevono da essa sufficiente radiazione da innescare i meccanismi di fotoevaporazione e ionizzazione del gas e appaiono per questo motivo “bui”. Possono comunque essere osservati poiché la polvere del disco assorbe molto efficacemente la radiazione luminosa; pertanto alcuni di questi dischi vengono osservati “in silhouette” rispetto allo sfondo brillante della nebulosa. Proprio in questi oggetti, che possono apparire a prima vista meno interessanti dal punto di vista scientifico perché più “tranquilli” di quelli fotoevaporati e ionizzati, gli astronomi hanno la possibilità di studiare al meglio le proprietà dei grani di polvere. Ad esempio è possibile stimare la dimensione raggiunta dai grani a seguito dei processi di aggregazione che possono portare fino alla formazione di pianeti.
Queste immagini dell’Hubble ci permettono quindi di ammirare la Nebulosa di Orione in tutto il suo maestoso splendore; e al tempo stesso di investigare nel dettaglio i processi fisici che hanno dato vita al nostro Sistema Solare.
Fig. 1: La collezione di 30 immagini di dischi protoplanetari nella Nebulosa di Orione, ottenute con la camera ACS del Telescopio Spaziale Hubble; al centro dell’immagine spicca Theta 1 Ori C, la stella più massiccia e brillante di questa regione, che con la sua radiazione energetica accende il gas della Nebulosa e provoca la fotoevaporazione e ionizzazione dei dischi protoplanetari ad essa più vicini (NASA, ESA e L. Ricci (ESO)).
Fig. 2: La Nebulosa di Orione con sovrapposte le immagini ingrandite di sei dischi protoplanetari (NASA, ESA, M. Robberto – Space Telescope Science Institute/ESA, the Hubble Space Telescope Orion Treasury Project Team e L. Ricci – ESO).
Fig. 3 e Fig. 4: Dischi fotoevaporati e ionizzati (NASA, ESA e L. Ricci – ESO).
Fig. 5 e Fig. 6: Dischi “in silhouette” (NASA, ESA e L. Ricci – ESO).
VIDEO NON DISPONIBILE
Video: I processi di fotoevaporazione e ionizzazione di un disco protoplanetario da parte della radiazione più energetica proveniente dalla stella Theta 1 Ori C (ESA/Hubble, M. Kornmesser).