Resilienza è un termine di origine latina, impiegato in ingegneria e nella scienza dei materiali per indicare la capacità di un corpo di resistere a sollecitazioni rapide e violente recuperando la forma originaria: il suo contrario è la fragilità. Da qualche tempo il termine è stato assunto in campo psicologico per descrivere le reazioni della persona a situazioni di shock; e ultimamente viene sempre più spesso applicato a contesti sociali colpiti da eventi improvvisi e catastrofici. È il caso delle città travolte da fenomeni naturali sconvolgenti come uragani, inondazioni, terremoti dove, passata la drammatica emergenza del pronto intervento, si inizia a ragionare sulla possibilità di ripresa e di ricostruzione. Per Haiti purtroppo l’emergenza sembra prolungarsi parecchio ma già si è avviata la discussione sulla possibilità e sulle condizioni di una rinascita.



Le possibilità di recupero di città devastate da grandi disastri sembrano essere elevate. Secondo gli storici Tertius Chandler e Gerald Fox, tra le città che nel secondo millennio avevano subito alluvioni, incendi, terremoti o eruzioni vulcaniche, poche sono state abbandonate per sempre. Pare esserci una forza innata negli insediamenti urbani che li porta ad essere sempre ricostruiti. Per Lawrence Vale, docente di Pianificazione e Progettazione Urbana al MIT di Boston ed esperto di ricostruzione di città dopo le catastrofi, co-autore nel 2005 di un saggio dal titolo eloquente The Resilient City: How Modern Cities Recover from Disaster, questo principio si applica soprattutto agli ultimi duecento anni: prima era più frequente destinare all’abbandono città disastrate e trasformarle in città perdute, oggetto di ciniche curiosità turistiche. Nel caso degli ultimi due secoli invece Vale parla di città che «rinascono dalle ceneri come la mitica fenice» e che sono «tra le più durevoli tra le opere fatte dall’uomo». Fa l’esempio di Hiroshima e Varsavia, vittime del secondo conflitto mondiale; ma anche di Tangshan, in Cina, dove mezzo milione di persone sono rimaste sepolte sotto le macerie di un tremendo terremoto nel 1976 ma che in soli dieci anni ha recuperato le sue dimensioni pre sisma. Non manca tuttavia un contro esempio, e viene dalla stessa area dei Caraibi: è la città di St. Pierre, in Martinica, letteralmente bruciata nel 1902 a seguito di una potente eruzione vulcanica e mai più ricostruita. E c’è stato anche chi, in situazioni simili, ha sostenuto la tesi della non ricostruzione: come Klaus Jacob, geofisico dell’Earth Institute della Columbia University di New York, esperto di disastri naturali e del loro impatto sulle aree urbane, che richiesto di un parere per la ricostruzione nel dopo Katrina, diceva al Corriere della Sera: «Come scienziato, il consiglio sarebbe non ricostruire New Orleans e i suoi sistemi di difesa, perché è solo una questione di tempo: più alti sono gli argini artificiali, più disastrosa sarà la prossima inondazione».



 

In questi giorni Vale è intervenuto sulle pagine web del MIT proprio sulle prospettive della ricostruzione di Haiti, lanciando un preoccupato messaggio e qualche interessante spunto di riflessione. Sono tre, secondo lo studioso, le sfide cui deve far fronte un’esperienza di ricostruzione urbana. C’è il livello della ricostruzione fisica: sia in termini delle strutture necessarie alla esigenze primarie della vita quotidiana, ma anche in termini di strutture di tipo più simbolico, come i palazzi sedi di istituzioni civiche o gli edifici religiosi. C’è poi il livello socio-economico, che nel caso di Haiti incontrerà difficoltà supplementari data la situazione di povertà diffusa e profonda anche prima del disastro. Infine ci sono le sfide di tipo più emotivo e affettivo, che devono fare i conti con le gravi perdite personali subite più o meno da tutti. Ciascuna di queste tre sfide implica una particolare forma di resilienza. E qui c’è un primo suggerimento inaspettato nel discorso di Vale. Per gli haitiani, sostiene il guru del MIT, la resilienza potrà essere sostenuta sostanzialmente dalla fede e in questo senso la ricostruzione della Cattedrale e degli altri luoghi di culto sarà certamente vista come una pietra miliare simbolica fondamentale, segno promettente di recupero.



Certo, un tema che ha dominato i dibattiti analoghi e che piace molto ai pianificatori è quello di risollevarsi dalle catastrofi cogliendo le opportunità per imparare a costruire meglio. Pure questo sarà possibile ad Haiti, che indubbiamente non brillava per la sicurezza, efficienza e stabilità dei suoi edifici.

 

 

Ma anche per questo non mancano i problemi legati alla specificità della sfortunata semi-isola caraibica. Vale cita il caso di Plymouth, capitale dell’isola di Montserrat, sempre in centro America, che una terribile attività vulcanica tra il 1995 e il 97 aveva reso completamente inabitabile, costringendo la edificazione di una nuova città in un’altra zona dell’isola meno vulnerabile. Purtroppo però Port-au-Prince è parecchie centinaia di volte più grande di Plymouth e quindi il paragone non tiene. Il confronto più adeguato potrebbe essere quello col Bangladesh, che dopo i tremendi uragani e alluvioni che provocano enormi perdite di vite umane, vede la ricostruzioni di insediamenti ad alta intensità di popolazione e quindi di nuovo vulnerabili. Si tratta quindi purtroppo di un parallelo non di buon auspicio.

Considerando con realismo il problema del futuro di Haiti, non si può non dire che la resilienza di una città, o meglio di un popolo, non è certo questione di tecniche urbanistiche e di teorie sociologiche ma è in primo luogo esigenza di forti motivazioni e di capacità di condivisione e di gratuità. Lo stesso Vale conclude la sua intervista osservando che «Ultimamente la ricostruzione fisica di Port-au-Prince e del suo ambiente sembra essere l’ultimo dei problemi di Haiti. Allo stesso tempo, io posso solo sperare che la grande resilienza affettiva del popolo haitiano prevarrà ancora una volta».