Il Papa è tornato a parlare di scienza. Lo ha fatto nella sede più prestigiosa: quella Pontificia Accademia delle Scienze, che ha le sue radici nella Accademia dei Lincei – che quattro secoli fa aveva arruolato Galileo – e che Pio XI ha rifondato nel 1936 invitando a farne parte il fior fiore degli scienziati, con una prevalenza di premi Nobel. La annuale Sessione Plenaria appena conclusa, quest’anno ha affrontato il tema: “L’eredità scientifica del XX secolo” e tra i partecipanti c’erano alcuni dei protagonisti diretti di quell’eredità.
Un tema oggetto di valutazioni ambivalenti: molti, in forza degli indubbi avanzamenti in tutti i campi, continuano a considerare la scienza come risposta alle principali esigenze e aspettative dell’uomo; altri ricordano le applicazioni negative, in primis le armi nucleari, e mettono gli scienziati sul banco degli imputati. Ma la scienza – ha detto il Pontefice – «non è definita da nessuno di questi due estremi».
L’intervento di Benedetto XVI non era tanto indirizzato ad archiviare un bilancio del secolo passato quanto preoccupato di proporre linee di riflessione e di approfondimento. Avendo ben presente il quadro di una scienza che si trova ancora davanti ai due possibili estremismi. Per il XXI secolo si preannunciano infatti scoperte, nel microcosmo e nel macrocosmo, che potrebbero modificare radicalmente la nostra visione della natura.
Si profila la possibilità di elaborare nuovi approcci per la descrizione dei fenomeni, sia del presente che del lontano passato; e stanno per cambiare molti modelli con i quali spieghiamo i comportamenti naturali presenti e futuri, cercando di fare previsioni. Le quali previsioni tuttavia, proprio nei casi in cui servirebbero di più (sicurezza ambientale, clima, catastrofi) si dimostrano sempre più deboli e incapaci di fornire le certezze che ci aspettiamo.
Per evitare questa divaricazione, il Papa ribadisce la natura della conoscenza scientifica e ne indica con nettezza il compito: che era e rimane «una paziente e appassionata ricerca della verità sul cosmo, sulla natura e sulla costituzione dell’essere umano».
I due aggettivi che accompagnano il termine ricerca – paziente e appassionata – sembrano venire incontro a un esigenza che sta emergendo dal mondo della ricerca: è la sottolineatura dell’atteggiamento personale col quale affrontare il lavoro scientifico; per renderlo un’esperienza umanamente significativa e rispettosa della realtà e per evitare la schizofrenia che porta all’esaltazione presuntuosa quando arriva qualche risultato o alla delusione rinunciataria quando la natura sembra non voler svelare i suoi segreti.
Sono due aggettivi in effetti poco utilizzati nel dibattito pubblico. Il primo per la pressione di un certo modo prevalente di fare scienza, giocato tutto sulla competitività, sulla corsa alla pubblicazione, sulla misurazione dell’Impact Factor (l’indicatore del numero medio di citazioni ricevute sulle riviste scientifiche).
Il secondo non solo poco usato ma anzi osteggiato: come se la passione per la verità potesse impedire il raggiungimento di risultati “obbiettivi”. Viceversa, i più grandi scienziati di tutti i tempi confermano quanto la passione, lungi dall’essere alternativa al rigore metodologico, è piuttosto un fattore che incrementa la capacità di indagine e incanala più facilmente tutta la tensione della ricerca verso quei frammenti di verità che lo scienziato desidera scoprire. Insomma, uno scienziato appassionato vede di più, intuisce di più, scopre di più.
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Sulla stessa linea di pensiero si colloca un’altra preziosa osservazione circa il beneficio che l’attività scientifica può ricavare «dal riconoscimento della dimensione spirituale dell’uomo e dalla sua ricerca delle domande ultime che consentono il riconoscimento di un mondo che esiste indipendentemente da noi e che non possiamo comprendere pienamente, che possiamo comprendere solo nella misura in cui comprendiamo la sua inerente logica».
Ritorna quindi il tema dell’allargamento della ragione e di un’apertura necessaria alla scienza stessa per essere più se stessa e per superare l’iper specialismo che, illudendoci di raggiungere il massimo di conoscenze in un settore, porta a una frammentazione incapace di poggiare su una base unitaria e di arrivare a una visione sintetica, alla quale nessun uomo può rinunciare a cuor leggero.
In tutto questo risulta fondamentale l’idea di creazione, oggetto tra l’altro di un acceso dibattito nei mesi scorsi innescato dall’ultimo libro di Stephen Hawking (che peraltro, è uno degli accademici pontifici, cooptato per i suoi meriti scientifici, forse un po’ meno per le sue elucubrazioni para-filosofiche).
Parlare di creazione significa parlare della condizione stessa per poter fare scoperte: se la natura non fosse frutto di una incessante e razionale opera creatrice ma fosse il meccanico susseguirsi di eventi necessari o totalmente casuali, non sarebbe possibile scoprire il nuovo e tradurlo in leggi; e vana sarebbe ogni impresa scientifica. «Gli scienziati non creano il mondo; essi imparano qualcosa sul mondo e tentano di imitarlo, seguendo le leggi e l’intelligibilità che la natura ci manifesta».