Ci piace ricordarlo così, con le parole pronunciate in un’intervista di otto anni fa dove Allan Sandage, uno dei più importanti astronomi del secolo scorso, dichiarava la sua ferma convinzione nella possibilità di essere uno scienziato e un cristiano: «La scienza rende esplicito l’incredibile ordine naturale, le interconnessioni a molti livelli tra le leggi della fisica, le reazioni chimiche nei processi biologici della vita ecc. Ma la scienza può rispondere solo ad un tipo fissato di domande, che concernono il cosa, il dove e il come.
Con il suo metodo, potente quanto esso sia, non risponde (e in verità non può) al perché. Perché c’è qualcosa invece che niente? Perché gli elettroni hanno tutti la stessa carica e massa? Perché il disegno che noi vediamo dappertutto è così veramente miracoloso? Perché così tanti processi sono così profondamente interconnessi?».
Certo, le scienze moderne hanno fatto passi enormi nella comprensione dei fenomeni naturali, sia di quelli che cadono sotto i nostri occhi ogni giorno, sia di quelli accaduti ai primordi della creazione, quando non c’erano occhi pronti a vedere e a meravigliarsi dell’immenso spettacolo cosmico. «Ma la conoscenza della creazione non è la conoscenza del Creatore, né qualsiasi scoperta astronomica ci dice perché l’evento è successo. È veramente soprannaturale (cioè fuori dalla comprensione del naturale ordine delle cose) e, da questa definizione, un miracolo».
Lo scienziato, che si è spento l’altro ieri a 84 anni nella sua casa di San Gabriel (California) aveva buone ragioni per parlare degli avanzamenti della scienza contemporanea: era stato stretto collaboratore e poi successore di Edwin Hubble all’Osservatorio californiano di Monte Palomar e Monte Wilson. È lì che il grande Hubble aveva scoperto l’espansione dell’universo, segnando una delle svolte più clamorose di tutta la storia della cosmologia.
Raccogliendo ancora giovane la pesante eredità del maestro, Sandage si è dedicato alla comprensione sempre più precisa del fenomeno dell’espansione cosmica e ha più volte proposto stime aggiornate del valore della costante di Hubble, parametro fondamentale per calcolare il ritmo di tale espansione e quindi l’età dell’universo. Con Martin Schwarzschild ha determinato l’età degli ammassi globulari e con Gustav Tammann ha contribuito alla calibrazione delle “candele standard”, necessarie per misurare la distanza delle più lontane galassie.
Non sono mancati i numerosi riconoscimenti; tra questi, la medaglia Eddington della Royal Society, la US National Medal of Science, la medaglia Pio IX e, nel 1991, il Premio Crafoord della Accademia delle scienze svedese, una sorta di premio Nobel per l’astronomia del valore di due milioni di dollari.
Accanto a questa ampia conoscenza del mondo fisico, non aveva mai nascosto la sua ferma credenza religiosa e il fatto che questa non suscitasse alcun conflitto con la scienza: «Non ci può essere alcun conflitto se è chiaro che ciascuna tratta un aspetto differente della realtà. La Bibbia non è certo un libro di scienza: uno non la studia per trovarci le intensità e le lunghezze d’onda delle linee di Balmer per l’idrogeno, né la scienza ha a che fare con le proprietà ultime spirituali del mondo, che sono anch’esse reali».
Era anche convinto, realisticamente, che quegli scienziati che vogliono vedere nell’ordine cosmico un disegno, lo vedranno, mentre quelli che insistono in una visione riduzionista materialista non ammetteranno mai un mistero nelle cose che vedono e rinvieranno sempre il discorso in avanti nell’attesa fiduciosa di una spiegazione riduzionista per ciò che è ancora ignoto. «Ma portare questo credo riduzionista al livello più profondo e a un tempo indefinito nel futuro (e indefinito sempre rimarrà), quando “la scienza conoscerà ogni cosa”, è esso stesso un atto di fede, che nega che ci possa essere qualcosa di sconosciuto alla scienza, almeno per principio».
E proprio dall’interno della sua pratica scientifica arrivava ad affermare che se il mondo dovesse essere tutto compreso in un nichilismo materialista-riduzionista, allora non avrebbe senso e perderebbe senso e gusto la stessa esperienza della ricerca. «Più ogni scienziato spinge nel profondo il suo lavoro, più esso diventa ancora più profondo».
(Michele Orioli)