Alcune invenzioni rivoluzionarie hanno cambiato nel breve volgere di poche stagioni un aspetto della civiltà umana. Dai primi timidi balzi all’uso quotidiano dell’aeroplano sono bastati pochi anni, abbreviati dallo sforzo bellico. Non può dirsi lo stesso per il tokamak, il dispositivo magnetico nelle quali sono al momento riposte le maggiori speranze per l’avvento su scala industriale dell’energia da fusione termonucleare.



A più di cinquant’anni dalla sua invenzione ad opera degli scienziati sovietici, e nonostante gli straordinari progressi compiuti, il volo non è ancora stato spiccato. Nel senso che, benché le reazioni di fusione nucleare di isotopi dell’idrogeno simili a quelle che avvengono nel centro del nostro Sole siano state riprodotte, esse ancora non sono state ottenute nella quantità necessaria ad “auto-sostenere” il processo. Come un’automobile che stenta a partire dopo i primi giri del motore.



In questo contesto, ogni progresso promettente è un prezioso contributo anche se non si tratta di una rivoluzione scientifica. Rientra in questa categoria la notizia divulgata alcuni giorni fa dal prestigioso Princeton Plasma Physics Laboratory, riguardante il successo nell’applicazione di una particolare “configurazione” magnetica al tokamak NTSX (National Spherical Torus Experiment) chiamata fantasiosamente “snowflake divertor”, divertore a fiocco di neve.

Un tokamak è una camera magnetica a forma toroidale (è la forma geometrica di una ciambella), nella quale un intenso campo magnetico trattiene il gas di isotopi di idrogeno completamente ionizzato chiamato plasma. In un plasma gli elettroni e i nuclei che costituiscono gli atomi del gas (inizialmente elettricamente neutri) si separano costituendo una miscela di due fluidi elettricamente carichi e pertanto soggetti all’effetto intrappolante (in gergo “confinamento”) del campo magnetico.



Nelle macchine tokamak questo confinamento avviene in modo relativamente stabile e controllabile e questa proprietà è garantita dalla combinazione di alcune caratteristiche apparentemente secondarie nella configurazione magnetica, cioè nella forma del campo magnetico all’interno del tokamak.

In particolare in un tokamak oltre al campo magnetico toroidale (“avvolto” parallelamente alla circonferenza maggiore del toroide) gioca un ruolo importante anche una seconda componente di intensità inferiore, chiamata poloidale, che si avvolge intorno alla sua circonferenza minore. Negli anni ’80 fu scoperto che una particolare configurazione a “otto” del campo poloidale può recare significativi miglioramenti del funzionamento del tokamak. Usando questa configurazione – nella quale il “cerchio superiore” dell’otto racchiude il plasma mentre il cerchio inferiore (più piccolo) si chiude intorno agli apparati elettrici esterni ad esso – si può di fatto pilotare la posizione del punto di intersezione (X-point) dei due circoli.

Ciò consente di allontanare il plasma dalle pareti della camera toroidale migliorandone la capacità di confinamento. Il prezzo da pagare per questo miglioramento è che le particelle – che inevitabilmente in una certa frazione continuano a sfuggire da questa trappola magnetica – urtano con grande energia l’area nelle vicinanze dell’X-point. Per questa ragione tale area (chiamata divertore) è particolarmente rinforzata.

L’altra conseguenza è che, benché il confinamento complessivo sia migliore, importanti rilasci di particelle ed energia accompagnati da perturbazioni della configurazione magnetica (Edge Localized Modes, ELMs) avvengono periodicamente al bordo del plasma. Questo fenomeno è considerato al momento uno degli ostacoli più seri al funzionamento di un reattore. L’energia rilasciata dagli ELMs, infatti, è proporzionale all’energia del plasma. Se non controllata, in un reattore pochi ELMs sono sufficienti a provocare gravi danni.

La scienza e la tecnologia del divertore e dell’interazione del plasma con la parete sono quindi punti di capitale importanza sul percorso verso il reattore termonucleare. Qualche anno fa (2007) Dmitry Ryutov, del Lawrence Livermore National Laboratory (California) ha studiato teoricamente una configurazione poloidale lievemente differente, nella quale l’X-point è modificato assumendo una forma a “trifoglio” o a “fiocco di neve”. In sostanza questa situazione porta a un bombardamento di minore intensità delle particelle che sfuggono all’intrappolamento, perché diffuso su un’area maggiore.

Questo concetto è stato dapprima applicato in Europa dagli scienziati del Centre de Recherches en Physique des Plasmas (Losanna) che hanno a disposizione un tokamak particolarmente adatto a studiare configurazioni magnetiche “estreme”. Più recentemente (2010) è stato riprodotto al PPPL in un plasma caratterizzato da un maggiore valore di energia totale. Entrambi gli esperimenti confermano le “buone” proprietà dello “snowflake divertor”, almeno dal punto di vista dell’incremento di area della zona interessata del divertore. Un altro passo avanti sul difficile cammino della fusione termonucleare.