Cos’è una parola? Sembra una domanda semplicissima, ma come spesso accade, in linguistica come in matematica, nozioni che sono intuitivamente semplici sono in realtà difficilissime da definire in modo formale, come quando si chiede cos’è un numero. Per la nozione di parola, la semplice idea che basti dire che si tratta di una sequenza di suoni dotata di significato è sia troppo rigida sia troppo lasca: troppo rigida, perché se ad esempio diciamo un libro nuovo siamo di fronte a una sequenza di suoni dotati di senso ma di parole ce ne sono tre; troppo lasca, perché se confrontiamo libro con libri, ci accorgiamo che di significati ce ne sono almeno due – quella dell’oggetto “libro” e quella di singolarità o pluralità – ma di parole ce n’è una sola per ciascun gruppo di significati. I linguisti sanno che bisogna ricorrere a definizioni ben più elaborate come quelle proposte da Otto Jespersen negli anni venti del secolo scorso.



Il gioco, si fa per dire, diventa ancora più complesso se ci chiediamo dove stiano le parole nel cervello. Come spesso accade la clinica ci viene in aiuto: da molto tempo si sa che esistono fenomeni di anomia, cioè di perdita della capacità di produrre nomi, di tipo selettivo: ci sono anomie per i nomi propri, anomie per nomi comuni, anomie ancor più selettive per oggetti concreti di vario tipo, come per esempio quelle per gli utensili, oggetti che implicano un uso, cioè si associano ad una manipolazione coordinata dei movimenti, come per forbice o rastrello. Queste anomie selettive ci insegnano dunque che quando memorizziamo una parola memorizziamo molte informazioni su di essa, come appunto il movimento o l’uso dell’oggetto che abbiamo in mente.



 

Con questa premessa, il risultato di un recente esperimento condotto nei laboratori alla Carnegie Mellon University della Pennsylvania assume una centralità davvero rilevante. I ricercatori sono riusciti a scomporre in fattori, per così dire, il significato di alcune parole semplici, come quelle che riguardano parti del corpo, frutta, parti di edifici, insetti, ecc: ciascun nome era associato alla combinazione unica di questi fattori primi. I fattori primi, come ad esempio “manipolabile”, “commestibile”, “utilizzabile come copertura”, venivano a loro volta associati a reti neurali specifiche del cervello, tramite misure ottenute con metodi di neurommagine (in particolare, con la risonanza magnetica funzionale). Il risultato principale è che, il percorso poteva essere costruito, per così dire, alla rovescia: semplicemente facendo pensare un nome ai soggetti durante una sessione di rilevazione dell’attività cerebrale si riusciva a capire quale nome avevano pensato sulla base delle reti neuronali attivate. Senza dubbio un risultato molto importante. Quanto importante?



Qui si aprono due questioni decisive, sia per la ricerca dei fondamenti biologici del linguaggio, sia per la linguistica contemporanea; due questioni distinte ma non scorrelate, iniziamo dalla seconda. Nella storia della linguistica del Novecento ci sono stati molti tentativi di scomporre in fattori primi tutte le parole possibili di una data lingua: dalla glossematica alla semantica generativa, questo miraggio è stato perseguito con grandissimi sforzi. In realtà, i risultati sono deludenti: nessuno è mai riuscito a trovare una “tavola periodica” dei significati: una classificazione cioè di tutte le parole a partire dalla combinazione di significati semplici. Certo, si può distinguere gattino da galassia, sulla base di combinazione di tratti minimi come [± vivente], [± giovane], [± visibile], ecc. ma la possibilità di ricostruire tutto il lessico di una lingua, con parole come deduzione, amore o giudizio o addirittura come forse, se, o il sembra ormai una chimera irraggiungibile. Studi come quello presentato riaprono su base neuropsicologica, almeno parzialmente, la strada per questo programma di ricerca su basi completamente nuove: non più fattori primi arbitrari e studiati sulla base dell’introspezione, della capacità cioè di distinguere coscientemente i significati, ma sulla base delle reazioni neuropsicologiche, inconsapevoli e universali dei parlanti.

 

 

E qui si apre la questione fondamentale, indipendente da qualsiasi modello adottato: il nostro linguaggio è il riflesso della struttura del mondo sul cervello o viceversa è la struttura del linguaggio che ci permette di interpretare la struttura della realtà? La scienza contemporanea del linguaggio, fatta di convergenze tra linguisti teorici e neuropsicologi, si trova dunque a riaffrontare uno dei problemi più affascinanti che si siano mai posti sulla natura della mente umana in una veste nuova.

Vale forse solo la pena di accennare che altre ricerche nell’ambito della speculazione sui fondamenti biologici del linguaggio, come quelle sulla comprensione della frase, stanno dando punti a favore dell’ipotesi che la sintassi, la caratteristica linguistica che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi, fornisce prove che la struttura del linguaggio umano non possa derivare interamente dalla struttura del mondo, ribadendo una volta di più che il mistero del linguaggio è fatto della stessa stoffa del mistero dell’uomo, nella sua interezza.