Camminando per la città di Jena (Germania), non lontano dall’Università, tra la Fürstengraben e la Weigelstrasse ci si può imbattere in una strana opera d’arte, una sfera di roccia recante un curioso mix di simboli matematici e lettere greche. Il monumento in questione è dedicato ad Ernst Abbe e la formula che vi si trova incisa è quella che descrive il limite di risoluzione per un microscopio. Era il 1873 e nella città di Jena il professor Abbe fu chiamato da Carl Zeiss nella sua industria per migliorare la costruzione di strumenti ottici. Abbe si trovò così a sviluppare i fondamenti matematici per la progettazione dei microscopi ottici e scoprì che questi strumenti avevano un limite intrinseco, non dovuto all’abilità manifatturiera ma a leggi di natura.



Come riportano molti libri di testo, un microscopio ottico non può mai risolvere (cioè distinguere) due oggetti più vicini tra loro della metà della lunghezza d’onda della luce utilizzata, a causa del fenomeno della diffrazione. Nel caso di luce visibile le lunghezze d’onda assumono valori in un intervallo piuttosto ristretto, tra i 400 e i 700 nanometri (miliardesimi di metro); di conseguenza il limite di risoluzione di un microscopio ottico (anche del migliore, non importa la qualità o la capacità di ingrandimento) è fissato a non più di 200 nanometri. In pratica non si possono distinguere oggetti 400 volte più piccoli di un capello.



Ancora oggi oltre l’80 per cento della microscopia in ambito life-science è svolta utilizzando il microscopio ottico, non tanto per la mancanza di tecniche alternative (come la microscopia elettronica e le microscopie a scansione di sonda), bensì per l’impossibilità di applicarle a molti campioni biologici in condizioni fisiologiche.

L’idea che sta cambiando il modo di guardare attraverso le lenti del microscopio risale alla fine degli anni ’90, quando si intuisce che le molecole fluorescenti comunemente usate per evidenziare le aree di interesse nei campioni biologici possano essere la chiave di grimaldello per andare oltre il “limite di diffrazione”.



 

I primi passi sono stati compiuti dimostrando che nel caso di una singola molecola fluorescente osservata, la diffrazione non costituisce più un limite nella determinazione della posizione del fluoroforo. Per esempio, con la tecnica chiamata FIONA (Fluorescence Imaging with One-Nanometer Accuracy) la risoluzione del microscopio arriva a distinguere oggetti a livello del nanometro. Tuttavia per “osservare” l’immagine di un campione biologico normalmente sono necessarie milioni di milioni di molecole fluorescenti. Per questo i ricercatori si sono concentrati sul modo di illuminare una singola molecola alla volta pur avendone un elevato numero nel campione da studiare.

Nel sistema sviluppato dal gruppo del professor Stefan Hell del Max Planck Institute di Göttingen e chiamato STED (STimulated Emission Depletion), vengono impiegati due laser. Il primo stimola l’emissione di luce da parte delle molecole fluorescenti. Il secondo (detto fascio di deplezione) ha la forma bizzarra di una ciambella e serve a “spegnere”, come fossero lampadine, tutte le molecole che non si trovano nel buco della ciambella. Se il buco della ciambella è sufficientemente piccolo da contenere una sola molecola allora è possibile ricostruire una immagine ad altissima risoluzione semplicemente muovendo il fascio di deplezione.

Alternativamente il gruppo di Harvard della professoressa Xiaowei Zhuang, impiega delle molecole fotoattivabili che in normali condizioni non sono fluorescenti ma possono diventarlo se prima illuminate da una particolare lunghezza d’onda. Il processo è reversibile e quindi, esponendo il campione ad un fascio molto debole, si può arrivare ad attivare una sola molecola alla volta. La molecola foto-attivata si comporta perciò come un comune fluoroforo e, stimolata da un secondo laser, emette la sua luce caratteristica che viene utilizzata per registrare l’immagine. Questa tecnica si chiama STORM (STochastic Optical Reconstruction Microscopy).

Questi nuovi approcci consentono oggi di misurare con una risoluzione di 10-20 nanometri e la semplicità di idee che sta alla loro base ha fatto sì che nell’ultimo paio d’anni abbiano già cominciato a fare capolino in molti laboratori di ricerca, inaugurando così l’era della “nanoscopia”.

Camminando per le strade di Jena, lo strano mix di simboli matematici e lettere greche della formula di Abbe non appare più come un limite invalicabile o un dogma da libro di testo, bensì come l’affascinante inizio di una esplorazione di un mondo microscopico, anzi, nanoscopico.

 

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