Ci sono stati segnali contraddittori in questi primi mesi del 2010 nella galassia Internet: c’è chi ha candidato Internet al prossimo Nobel per la Pace (come il mensile Wired di gennaio); chi ha denunciato l’avvio di una nuova fase di attività degli hacker, non più fatta dell’azione di nerds isolati ma organizzata in truppe specializzate a servizio di Stati-canaglia (lo hanno segnalato con preoccupazione gli esperti di cyberattack al forum Economico di Davos). Ne parliamo con Andrea Tomasi, docente presso il Dipartimento di Ingegneria dell’ Informazione dell’Università di Pisa.



Lo strumento ha forse superato i suoi confini e promette quello che non può dare?

La “rete”, proprio in forza delle tecnologie con cui è costruita, è un canale di comunicazione multipolare, che non ha un luogo di controllo centralizzato. Questa sua caratteristica la rende capace di crescere quasi indefinitamente raggiungendo miliardi di persone in ogni angolo della terra, e consente la circolazione di informazioni in modo praticamente incontrollabile. I controlli possibili sono infatti tecnicamente difficoltosi e in pratica inutili, dato che i messaggi possono “viaggiare” con una molteplicità di copie inviate da una pluralità di fonti differenti (dislocate su server anche geograficamente assai distanti tra loro, in Paesi o in continenti diversi). Per questo è allo stesso tempo strumento per diffondere voci libere, in dissenso a poteri autoritari, e “terra di nessuno”, aperta a incursioni di “pirati tecnologici”.



Finora la risposta agli attacchi è stata di tipo tecnologico

Sì, la risposta tecnologica è stata di potenziare gli strumenti di protezione delle informazioni e di sicurezza delle comunicazioni (con “barriere tecnologiche” e l’uso di cifratura e chiavi di sicurezza). Oltre a osservare che tali tecniche sono “armi a doppio taglio”, perché possono favorire allo stesso tempo usi legali e usi illegali della rete (si pensi alle frodi telematiche e al trasferimento di denaro proveniente da traffici illeciti), forse è il momento di porsi con serietà il problema di una autorità sovranazionale che disciplini l’uso della rete e aprire un dibattito che faccia maturare un uso meno anarchico e ideologico delle potenzialità della rete, per valorizzarne gli aspetti positivi e cercare di confinarne quelli dannosi.



Cosa ne pensa della definizione del professor Veronesi (sempre su Wired) del “web come lingua universale della scienza”?

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Se posso osare una battuta, raccomanderei all’illustre oncologo di non addentrarsi in terreni che non fanno parte della sua competenza scientifica. La definizione infatti rappresenta un punto di vista che può essere comprensibile da parte di utenti che non praticano le tecnologie e le scienze moderne, ma risulta grossolana per chi sappia quanto le scienze moderne abbiano sviluppato linguaggi sofisticati e complessi per indagare le frontiere più avanzate della conoscenza. Il web è un contenitore universale, veicolo di linguaggi scientifici e di comunicazioni di ogni altro genere. Sarei preoccupato se la scienza si riducesse a parlare il linguaggio del web, un linguaggio visuale, emozionale, "immediato" fino ad essere superficiale, essenziale fino alla banalizzazione del messaggio, rinunciando a quello che è il linguaggio più autentico della scienza (di ogni scienza): l’uso della razionalità per andare in profondità nei misteri delle leggi che regolano i sistemi complessi, siano essi i principi della matematica, la natura della vita o la struttura dell’universo.

 

Alla luce dei nuovi strumenti (come i social network) come si ripropone il vecchio interrogativo, se Internet incrementi la comunicazione o l’isolamento?

 

È consapevolezza credo condivisa che l’eccesso di informazioni può produrre una carenza di significato, per l’impossibilità di selezionare tra contenuti significativi e non. Allo stesso modo la eccessiva moltiplicazione dei contatti può condurre a un sostanziale isolamento della persona, in particolare se consideriamo che molto spesso i contenuti della comunicazione diffusa nei social network è povera di calore umano e dispersiva in mille vacuità. La mia impressione è che vada scoperto un nuovo paradigma di "fare comunicazione" a distanza, che sfrutti gli aspetti positivi dello strumento (pervasività, istantaneità, globalità di spazio raggiunto). Probabilmente occorre imparare a discernere tra messaggi che si prestano alla circolazione sulla rete e contenuti che necessitano di altre vie comunicative.

 

E le relazioni interpersonali?

 

 

Anche per le relazioni, io credo che la rete possa rinforzare relazioni umane preesistenti, o crearne di nuove a partire da una forte condivisione di interessi specifici, ma ho molti dubbi sulla possibilità di "inventare" relazioni umane autentiche facendole scaturire in modo quasi automatico dalla comunicazione in rete. Per parafrasare un principio di qualità delle tecnologie informatiche (la buona tecnologia permette a una buona organizzazione di azienda di conseguire buoni risultati, ma nessuna buona informatica può far diventare buona una organizzazione che non lo è, per quanto denaro si voglia spendere): una buona relazione interpersonale può migliorare con la comunicazione in rete, ma nessuna buona comunicazione può surrogare una relazione inesistente.

 

C’è una questione educativa legata a Internet e come la si può precisare?

 

Ognuno dei temi introdotti dalle questioni poste in precedenza ha alla radice una problematica educativa. Oggi infatti gli strumenti della comunicazione in rete pongono in modo strettamente collegato tra loro problemi tecnologici e problemi culturali, quindi in definitiva problemi educativi. Ne vorrei sottolineare due: il primo problema riguarda la capacità di "convivere" con le tecnologie, usandole al meglio. Richiede una formazione che non dia per scontato che la "facilità d’uso" delle tecnologie possa sostituirsi alla conoscenza dei meccanismi con cui esse sono costruite. E tale formazione serve per rendersi conto della complessità degli strumenti e per non banalizzare le aspettative (in positivo o in negativo) sulle loro potenzialità.

 

La seconda?

 

La seconda questione educativa riguarda la costruzione di una cultura contemporanea che "stia dentro" la realtà del mondo d’oggi, fortemente influenzata dalla tecnologia, ma senza perdere di vista la centralità della persona umana, del soggetto a cui tutto va riferito. Io amo chiamare tale cultura "umanesimo tecnologico", e ritengo che il percorso educativo necessario a costruirla debba confrontarsi con le questioni etiche fondamentali, riguardanti i criteri con cui l’uomo agisce e con cui valuta l’effetto delle proprie azioni, sia sul piano personale che su quello sociale. Un percorso che richiede l’impegno educativo di tutte le persone di buona volontà, che siano consapevoli della bellezza e del rischio del mondo tecnologico verso cui è incamminata l’intera umanità.