Sempre più spesso l’obesità viene definita come una malattia tipica della società del benessere. I medici peraltro parlano di obesità quando vi è un eccessivo accumulo di tessuto adiposo che porta il valore di indice di massa corporea superiore a 30. Aldilà di questo dato tecnico, gli individui obesi sono accomunati da tutta una serie di patologie correlate più o meno gravi come malattie cardiovascolari, ictus, diabete e anomalie alle articolazioni.
Il costo sociale dell’obesità è enorme: in alcuni Paesi europei raggiunge l’1% del prodotto interno lordo e rappresenta il 6% della spesa sanitaria diretta. Non solo: i costi indiretti dovuti alle morti premature, alla riduzione della produttività lavorativa e ai relativi guadagni sono doppi rispetto a quelli diretti. Uno studio spagnolo ha evidenziato come questa nazione spenda per l’obesità circa 2,5 miliardi di euro ogni anno.
Le cause dell’obesità sono molte. In particolare questa patologia è quasi sempre associata a una eccessiva e cattiva alimentazione che va ad aggiungersi a uno stile di vita sedentario. Esistono però altre concause che aiutano a sviluppare la malattia. Oltre alle disfunzioni ormonali e alle alterazioni della psiche del malato, prende sempre più piede l’ipotesi che l’obesità sia causata anche dalla microflora dell’intestino.
Un recente studio di un gruppo di ricerca della Emory University di Atlanta (Stati Uniti), pubblicato dalla rivista Science,è riuscito a indurre un aumento dell’appetito e l’insulino-resistenza (caratteristiche dell’obesità) trasferendo dei microrganismi dell’intestino da un topo obeso ad uno sano. Questo risultato conferma ulteriormente l’ipotesi che vede nei microrganismi una possibile causa dell’obesità. Infatti, studi recenti hanno evidenziato come tra uomini sani e uomini obesi vi sia una netta differenza nel numero e nelle specie di microrganismi che popolano l’intestino.
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Lo studio, coordinato dal professor Andrew Gewirtz, è iniziato in maniera quasi fortuita. Studiando dei topi privi del gene per il recettore “tool-like 5” (TLR-5) si è visto che questi animali presentavano un peso del 20% superiore ai topi normali. Non solo, essi avevano alti livelli di trigliceridi, di colesterolo, di pressione sanguigna, elevati livelli di glucosio nel sangue e infine un’eccessiva produzione di insulina. Caratteristiche del tutto simili agli individui obesi.
In questo caso, il legame tra obesità e microrganismi della flora intestinale è da ricercarsi nel recettore “toll-like 5”. Esso è un recettore, presente nel topo cosi come nell’uomo, in grado di segnalare la presenza di eventuali microrganismi e quindi di regolarne la presenza all’interno dell’intestino. Somministrando ai topi privi del gene TLR-5 degli antibiotici in grado di eliminare una vasta gamma di microrganismi, i ricercatori hanno visto regredire tutti quei sintomi tipici dell’obesità del topo. Inoltre, come dimostrato in studi precedenti, i topi senza questo gene hanno mostrato una flora intestinale del tutto differente dai topi sani.
I risultati ottenuti da questa ricerca dimostrano per la prima volta come i microrganismi dell’intestino siano in grado di regolare l’appetito. Il passo successivo sarà quello di analizzare eventuali mutazioni nel gene TLR-5 in individui umani affetti da obesità e di stabilire attraverso quale meccanismo l’assenza di questo recettore possa influenzare l’appetito. In futuro sarà dunque lecito pensare che la lotta all’obesità passerà anche dall’analisi e dall’eventuale correzione della flora intestinale.