“Papà sei arrabbiato o stai facendo Matematica?”, così Edward Nelson ricorda una domanda di sua figlia che lo vedeva immobile e assorto da più di un quarto d’ora sul divano. Vengono in mente tutti i racconti di matematici un po’ svagati e, almeno apparentemente, distratti rispetto a quello che accade intorno.



Eppure Nelson (docente al Department of Mathematics della Princeton University, membro della National Academy of Sciences, Membro dell’American Academy of Arts and Sciences) ha attraversato l’oceano su invito di alcuni studenti universitari milanesi del CUMA (un associazione che si occupa di Cultura Matematica) per discutere delle domande che più gli stanno a cuore riguardo ai fondamenti della matematica e alla “natura”, per così dire, degli oggetti matematici: per nulla scontata questa disponibilità e non frequente l’argomento.



Infatti Nelson non parla, se non con brevi cenni, dei suoi lavori in Calcolo delle Probabilità e processi stocastici o in Fisica Matematica (per i quali ha ricevuto il prestigioso Steele Prize) e in Analisi non standard; piuttosto ripete la domanda su cui riflette da anni sulle basi su cui si costruiscono le teorie matematiche.

A molti sarà capitato di utilizzare l’espressione “è matematico” nel senso di qualcosa di certo, granitico, indiscutibile. Ma su cosa si poggia questa struttura granitica che è la matematica? Nelson parte ammettendo il suo tifo per una posizione “formalista” in Matematica e spiega come si possa partire dai simboli (variabili, funzioni, simboli come +,x,-) e dalla sintassi che si occupa della concatenazione di questi simboli. Una teoria matematica può essere ricondotta alla manipolazione logico-formale dei simboli, basata su assiomi predefiniti.



In altri termini la giustificazione delle teorie matematiche può avvenire tramite sistemi formali all’interno dei quali i simboli siano manipolati in base a regole sintattiche rigorosamente specificate. Una formula, una espressione è una mera sequenza di simboli. Niente deve essere utilizzato se non specificato dagli assiomi e dalle regole logiche di manipolazione. Gli assiomi sono semplicemente delle proposizioni da mettere all’inizio della catena deduttiva di una teoria. I teoremi o le proposizioni sono ottenuti dalle concatenazioni ammissibili di simboli: queste concatenazioni formano la dimostrazione del teorema.

Tutto deve essere ovviamente esplicitato: assiomi, concetti primitivi, regole di deduzione e nessuna proposizione può essere accettata se non viene rigorosamente dedotta dagli assiomi.

 

Nelson fornisce l’esempio cardine dell’aritmetica di Giuseppe Peano costruita nell’Ottocento quale metodo per poter ragionare sull’infinità dei numeri naturali. Gli assiomi di Peano sono: 0 è un numero, ogni numero ha un successore; 0 non è il successore di nessun numero; due numeri diversi hanno successori diversi; il “principio di induzione” (se una proprietà è vera per 0, e se è vera per il successore di ogni numero, allora la proprietà è vera per ogni numero. Quale è la proprietà essenziale di un tale sistema (e di sistemi formali analoghi)?

Nelson la riprende più volte: la consistenza o coerenza). In altri termini la teoria non deve avere contraddizioni al proprio interno, ovvero, non si può provare contemporaneamente la verità e la falsità di qualche proposizione.

 

Risulta chiaro, per esempio, che la consistenza degli assiomi di Peano porrebbe basi solide all’aritmetica. A questo punto entrano in scena i celebri Teoremi di Gödel che toccano il cuore della questione. Il primo Teorema di incompletezza di Gödel afferma essenzialmente che se l’aritmetica di Peano è un sistema coerente, allora essa è certamente incompleta, cioè: alcune fra le asserzioni oggetto della teoria non sono né dimostrabili né refutabili a partire dagli assiomi della teoria stessa. Nelson sottolinea che anche in matematica la verità di una proposizione non dipende dalla sua dimostrabilità e fornisce un esempio.

 

Circa 2500 anni fa i pitagorici definirono i numeri perfetti: un numero è perfetto se è la somma dei suoi divisori. Ad esempio 6=3+2+1 e 28=14+7+4+2+1 sono perfetti. Euclide molto probabilmente dimostrò una formula per generare numeri pari perfetti, fatto ripreso molto più tardi anche da Eulero. Ma esiste un numero perfetto dispari? Questo è uno dei problemi irrisolti più antichi della matematica; ma è un fatto della realtà matematica che un tale numero o esiste o non esiste, anche se non abbiamo una dimostrazione per le mani.

 

Nelson si tuffa nello schema della dimostrazione formale del secondo Teorema di Gödel: Se l’aritmetica (o un sistema formale sufficientemente complesso che possa contenerla) è coerente, la proposizione che esprime la sua coerenza è indimostrabile all’interno dell’aritmetica stessa.

 

Come dire che nessun sistema di questo tipo può autocertificare la propria coerenza. Una possibile soluzione, che Nelson non gradisce, consiste nel provare la consistenza dell’aritmetica in un sistema più “grande” che lo contenga. Per Nelson è come portare un testimone ad un processo per verificare l’onestà di qualcuno e dover chiedere dell’onestà del testimone ad un secondo testimone e così via senza fine. In seguito mette in luce la difficoltà nascosta nel considerare l’esistenza di insiemi infiniti completi nella prospettiva, per così dire, semantica sulla matematica ovvero la scoperta di proprietà di entità che esistono.

 

La possibilità della non coerenza dell’aritmetica è il problema principale che ora sta affrontando nel proprio lavoro di ricerca. È il confrontarsi con l’infinito in potenza che Nelson trova particolarmente interessante. Ma, dice, il numero è una creazione umana, forse è una favola, non c’è una realtà esterna corrispondente.

 

Da qui sorge la domanda del perché continuare a fare matematica in questa prospettiva.

 

«La matematica è più un’arte, come la musica, che una scienza. La matematica – continua Nelson – è una creazione dell’uomo come la pittura, la musica. Quando si crea un pezzo di musica, il senso non è significativo, è la bellezza quella che conta è la bellezza quella che resta».

 

Nelson continua interpellato su questa strana bellezza in matematica: «Si fa esperienza del bello in matematica nella profondità degli oggetti matematici, nelle relazioni insospettate tra le strutture che prima sembravano non correlate, quando si fa una dimostrazione semplice almeno nella sua linea generale, quando si risolve un problema difficile, nel piacere della collaborazione collegiale e nella competizione».

 

Professore, un commento sulla frase di Eugene Wigner «Il fatto miracoloso che il linguaggio della matematica sia appropriato per la formulazione delle leggi della fisica è un regalo meraviglioso che noi non comprendiamo, né meritiamo». Come è possibile che una costruzione della nostra mente abbia una corrispondenza sorprendente con la realtà che ci circonda?

 

«La matematica è uno strumento, un linguaggio per la fisica ma la sua efficacia rimane un mistero, è un mistero profondo … non ho una risposta».

 

(a cura di Giovanni Naldi e Marta Calanchi)