La recente sentenza del Consiglio di Stato e l’approvazione in sede UE della coltivazione della patata Amflora hanno riacceso i riflettori sulla questione degli OGM che per qualche tempo era rimasta sopita grazie anche alla strategia dilatoria attuata in particolare dal Ministero dell’agricoltura.
Sui giornali, alla radio, in televisione e sul web è ripresa l’altalena dei pareri pro e contro, con l’usuale accentuazione titolistica degli aspetti più sensazionalistici e con prese di posizione anche molto decise, per lo meno a parole, da parte di diversi esponenti politici, soprattutto se impegnati in campagna elettorale.
Le argomentazioni sviluppate dagli oppositori degli OGM, quando si supera il livello della pura fantascienza o di affermazioni del tutto gratuite, sono quelle di sempre: la sicurezza degli alimenti, la biodiversità, il potere delle multinazionali, la salvaguardia della tipicità delle produzioni agricole italiane, l’incompatibilità con il sistema agroalimentare nazionale, fino alla contestazione del beneficio economico derivabile dagli OGM.
Gli argomenti sono quindi molteplici e di diversa natura, a volte in contraddizione (ad es. da un lato si paventa la diffusione totalizzante degli OGM, con il conseguente abbandono delle coltivazioni tradizionali, e dall’altro, magari nello stesso intervento, si sostiene che gli OGM fanno lievitare i costi di produzione…), spesso generalizzanti o generalistici.
In poche righe non è perciò facile cercare di fare un po’ di chiarezza, ma almeno su alcuni aspetti cercherò di precisare i termini della questione.
Proprio partendo dall’ultimo caso, ovvero la patata Amflora, è possibile evidenziare già alcune deformazioni della realtà causate spesso dalla necessità di sintetizzare la notizia nei titoli. Leggendo i giornali di questi giorni, molti tra i più diversi come target e collocazione politica prospettano al lettore frettoloso un’apertura generalizzata dell’UE agli OGM e alcuni, quindi, ne paventano un’imminente e crescente presenza nel piatto.
La realtà è, invece, alquanto differente perché in Europa, come in tutti i paesi del mondo, l’approvazione degli OGM deriva sempre da un esame caso per caso, al termine di un iter lungo, complesso e costoso per il proponente e dopo l’avvallo delle autorità tecnico-scientifiche preposte all’esame (l’EFSA nell’UE) che prendono in considerazione tutti gli aspetti (sicurezza alimentare, compresa la questione dell’allergenicità, possibili conseguenze sull’ambiente, ecc.) integrando la documentazione presentata dal proponente (che deve comunque seguire rigorosi standard) con articoli e studi scientifici inerenti la materia.
L’autorizzazione della patata Amflora è perciò un caso specifico e riguarda una modifica che volutamente non ha una valenza nutrizionale, ma è indirizzata ad usi quasi esclusivamente industriali (carta, colla, cosmetici, prodotti tessili, ecc.) perché elimina le lavorazioni necessarie per separare i due amidi presenti nelle patate, ovvero l’amilopectina, utile per questi usi, e l’amilosio che in questa patata GM non è presente, con ricadute positive in termini di costi, di risparmio energetico e di impatto ambientale.
La produzione di questa patata non andrà a creare un pericolo per le patate tradizionali, perché sarà coltivata a contratto in campi che dovranno essere isolati dagli altri campi di patate per garantirne la caratteristica ricercata. Per questo il ministro Zaia potrà anche evitare di ricorrere a contromisure per bloccare il pericolo su una nuova “linea del Piave”, tanto nessuno sarà così folle da stipulare contratti di coltivazione con i nostri agricoltori. Sicurezza dei suoli patri preservata o ennesima occasione perduta per il sistema produttivo nazionale?
Amflora, essendo proprietà di Basf, ha inoltre ridato fiato alle polemiche sul ruolo delle multinazionali e sulla titolarità del seme.
Carlin Petrini nel suo Decalogo pubblicato all’inizio di febbraio su L’Espresso, così sostiene (mi auguro per ignoranza): “Le coltivazioni Ogm snaturano il ruolo dell’agricoltore che da sempre migliora e seleziona le proprie sementi. Con le sementi Gm, invece, la multinazionale è la titolare del seme: ad essa l’agricoltore deve rivolgersi ad ogni nuova semina (poiché come tutti gli ibridi, in seconda generazione gli Ogm non danno buoni risultati) ed è proibito tentare miglioramenti se non si pagano costose royalties”. Questa affermazione è errata in tutte le sue parti:
A) la titolarità del seme nasce ben prima degli Ogm sulla base della Convenzione UPOV che tutela i costitutori di nuove varietà vegetali;
B) non tutti gli Ogm sono ibridi;
C) la quasi totalità degli agricoltori dei paesi sviluppati ormai da decenni ha abbandonato la pratica della risemina, non perché costretti dalle multinazionali (vi figurate un farmer americano disposto subire imposizioni del genere?), ma sulla base di considerazioni economiche, infatti il seme certificato (privo di virosi ad es.) acquistato ogni anno garantisce molto di più sia la quantità (la capacità di germinare tende al 100%) che la qualità della produzione; nei paesi più poveri, invece, la pratica della risemina persiste spesso proprio per l’assenza di un mercato delle sementi e ciò può essere una delle concause della limitata produttività dell’agricoltura di questi paesi;
D) in Europa è consentito all’agricoltore che ha acquistato semi Gm coperti da brevetto riseminare sul proprio terreno parte del raccolto, se vuole (e se ne è capace) può quindi “migliorarlo”, l’unica cosa che non può fare è rivenderlo a terzi come semente.
Non solo: è falso asserire che gli Ogm siano controllati esclusivamente dalla ricerca privata, infatti esistono già piante autorizzate alla coltivazione frutto della ricerca pubblica negli USA (la papaia e il susino resistenti a virosi), in Canada (lino), in Cina (cotone, pioppo, riso, ecc.), altre sono in fase di autorizzazione o di avanzato sviluppo, quasi tutte si caratterizzano per modifiche genetiche che mirano a risolvere problemi specifici in differenti sistemi agroecologici. Alla fine degli anni novanta la nostra bistrattata ricerca pubblica era molto avanti e aveva già realizzato, tra l’altro, una melanzana senza semi e il pomodoro San Marzano resistente alle virosi, che combinati potrebbero essere un risultato ideale per chi soffre di diverticoli e ama la “parmigiana”.
La moratoria Ue, unitamente agli elevati costi per l’autorizzazione, hanno relegato nel cassetto questi risultati, così che continuiamo a consumare pomodori San Marzano “simil-tarocchi” (quasi tutti di origine olandese), mentre anche diverse ricerche mirate a ridurre l’utilizzo di pesticidi nei frutteti e nei vigneti sono di fatto state bloccate, perché non più finanziate o per l’impossibilità a condurre prove sperimentali in campo.
In questo modo, in Europa volendo combattere le multinazionali le abbiamo in realtà parzialmente favorite: se da un lato non ci vendono semi geneticamente modificati di mais (salvo in Spagna) o di soia, ma continuano comunque a venderci quelli tradizionali e gli insetticidi che sarebbero inutili con gli Ogm, dall’altro hanno preservato il fiorente business degli antiparassitari per frutteti e vigneti che poteva subire un discreto ridimensionamento grazie ai risultati della ricerca pubblica.
A livello italiano, tuttavia, le argomentazioni riguardo alla sicurezza degli Ogm e al potere delle multinazionali sono scese in secondo piano, mentre tendono a prevalere quelle relative alla preservazione della biodiversità e alla tutela dei prodotti tipici e del sistema agroalimentare nazionale.
Questo perché tali argomentazioni perdono di peso se si considera che la produzione e il consumo di piante Gm sono in costante crescita ormai da quindici anni, tanto che nel 2009 circa 14 milioni di agricoltori e piccoli contadini hanno coltivato 134 milioni di ettari (una superficie agricola pari a dieci volte quella italiana), senza aver dato problemi di sicurezza alimentare o ambientale, ma anzi riducendo in modo sostanziale l’impiego di insetticidi in particolare in India e in Cina per la coltivazione del cotone.
Sul tema della biodiversità ancora Carlin Petrini così afferma nel suo Decalogo: “Le colture Gm impoveriscono la biodiversità perché hanno bisogno di grandi superfici e di un sistema monoculturale intensivo. Se si coltiva un solo tipo di mais, si avrà una riduzione dei sapori e dei saperi”.
Il fondatore di SlowFood forse ignora che gran parte delle attuali colture Gm viene coltivata in appezzamenti molto inferiori ad un ettaro (cotone in Cina, India, Sud Africa, ecc.; papaia nelle Hawaii), che le piante Gm presentano diverse caratteristiche e finalità e che ogni singolo evento di modifica genetica non viene inserito solo in una singola varietà o su un unico ibrido di mais, ma su molteplici varietà adatte alle differenti condizioni pedoclimatiche e di durata del periodo vegetativo, nonché rispondenti a svariate destinazioni d’uso e di consumo.
A questo riguardo il famoso “Golden Rice”, il riso arricchito di provitamina A e di ferro, non è ancora coltivato, perché si sta procedendo a trasferire la modifica genetica in una serie di varietà locali asiatiche allo scopo di preservare la specifica identità del prodotto abitualmente consumato dalle diverse popolazioni.
In chi scrive desta poi un po’ di stupore riandare indietro nel tempo a quando, negli anni novanta e fino all’inizio del nuovo millennio, la Politica Agricola Comunitaria applicava un regime di sovvenzione alla coltivazione dei seminativi che, di fatto, incentivava attraverso premi consistenti la monocoltura del mais nella pianura padana, ma non ricordare alcuna presa di posizione contraria in nome della tutela della biodiversità da parte di molti degli attuali oppositori degli Ogm.
Ma il vero tema cruciale a livello italiano è quello della salvaguardia dell’identità della produzione nazionale e, in particolare, dei prodotti tipici che sicuramente caratterizzano il nostro sistema agroalimentare. A questo riguardo è opportuno fare riferimento a qualche cifra: la quota dei prodotti Dop-Igp e dei vini di qualità è stimabile pari al 10% della produzione agricola, al 5,5% dei consumi alimentari e al 15% delle esportazioni; il 90% dei prodotti Dop-Igp è costituito da formaggi e prodotti a base di carne e il 60% da solo 4 prodotti (Parmigiano-Reggiano, Grana Padano, Prosciutto di Parma e Prosciutto di San Daniele).
La produzione tipica italiana si regge quindi per la maggior parte su prodotti ottenuti da animali alimentati con mais e farina di soia, di cui siamo deficitari al punto che nel 2008 le importazioni nette di queste due materie prime, pari a 1600 milioni di euro, superavano di circa 600 milioni le esportazioni complessive di prodotti Dop-Igp. Questo disavanzo tende ad aumentare perché le scelte effettuate, anche riguardo alla possibilità coltivare mais Gm, hanno penalizzato la nostra produzione di mais e ciò implica che in futuro non solo la quasi totalità delle farine di soia proverranno da paesi che coltivano soia Gm, ma anche una parte significativa del mais potrà seguire lo stesso percorso.
La situazione è relativamente migliore per quanto riguarda la pasta, che non rientra tra i prodotti Dop-Igp, ma che costituisce l’emblema del “made in Italy” alimentare; in questo caso non ci sono ancora Ogm, tuttavia dobbiamo importare circa il 30% del nostro fabbisogno di grano duro dal Nord America e la principale impresa italiana ha costruito due stabilimenti di produzione negli USA.
Di fronte a questo quadro riesce difficile continuare ad asserire che le nostre produzioni di qualità debbano essere preservate dalla contaminazione degli Ogm, impedendone la coltivazione ai nostri agricoltori, ma dovendo dipenderne per garantire la necessaria alimentazione del bestiame.
Riguardo alla possibilità di coltivare anche in Italia ciò che già importiamo si frappone, infine, la questione della coesistenza con le colture biologiche e “tradizionali” che viene ritenuta impraticabile, se non impossibile, a causa delle limitate dimensioni delle nostre aziende agricole e delle misure di isolamento che si renderebbero necessarie.
Su questo terreno si è fatta parecchia “melina”, ovvero si è girato intorno alla questione ritardando le decisioni, cui siamo tenuti dalla normativa UE, al fine di utilizzare questa “tela di Penelope” per impedire di fatto la coltivazione del mais Gm. Da questa prolungata inadempienza è derivata per altro la sentenza del Consiglio di Stato che obbliga il Ministero ad autorizzarne la semina.
La gestione della coesistenza è possibile, come evidenziato da molteplici studi e in altri paesi (Spagna) non molto diversi dal nostro, va affrontata specie per specie, senza fare di ogni erba un fascio, e considerando che nel caso del mais circa il 45% della superficie coltivata fa capo ad aziende della pianura padana con una dimensione superiore ai 20 ettari e il 27% ad aziende con oltre 50 ettari.
Anche la convenienza economica della coltivazione e della gestione della coesistenza non può quindi essere generalizzata, ma va valutata per ogni singola specifica situazione.
Se perciò non possiamo già ora definirci Ogm-free, occorre anche considerare che la preclusione a priori e indistinta verso gli Ogm appare miope: sicuramente non tutte le colture geneticamente modificate sono e saranno utili per l’agroalimentare italiano, ma alcune possono addirittura aiutare a preservare le nostre produzioni tipiche.