Un tema ricorrente nel comportamento animale è l’aggressività di alcune specie verso l’uomo. Aggressività che spesso ha causato la morte. Per comprendere il significato di certi comportamenti dovuti anche alla mancanza di libertà, abbiamo intervistato la dottoressa Monica Oldani, psicobiologa presso l’Università degli Studi di Milano e l’università olandese di Utrecht.



Dottoressa Oldani, come è possibile spiegare questi fatti?

Per poter spiegare l’evento specifico occorrerebbe avere osservato nei dettaglio lo svolgimento dei fatti e avere una buona conoscenza del comportamento precedente dell’animale in questione. In primo luogo per essere in grado di dare un’interpretazione corretta della motivazione sottesa alla sua reazione di quel giorno. Bisogna infatti tener conto del fatto che pattern comportamentali di attacco, ai quali si tende automaticamente ad attribuire un’intenzione aggressiva, soprattutto quando hanno esiti tanto nefasti, possono in realtà far parte del comportamento di gioco, della competizione sociale, del comportamento predatorio.



Quindi?

Quindi, per descriverli senza cadere nell’insidia dell’antropomorfizzazione è essenziale individuare la chiave di lettura giusta. Tengo a dire, però, che il tentativo di spiegare l’attacco perpetrato dall’orca Tilikum quel giorno alla sua addestratrice, anche se può essere un interessante e utile esercizio etologico, è fuorviante dal punto di vista zooantropologico e privo di significato sul piano etico. Focalizzare l’attenzione su singoli eventi di questo genere cercando l’aberrazione nel comportamento di un singolo animale rischia di far dimenticare che la vera anomalia sta nel fatto di detenere animali selvatici in cattività e quindi in condizioni che si discostano abissalmente da quelle nelle quali il loro comportamento si è evoluto.




E nel caso dell’orca?

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Nel caso dell’orca basta considerarne le dimensioni (i 6-8 metri di lunghezza per 4-6 tonnellate di peso), l’organizzazione sociale (fatta di gruppi di femmine imparentate, a loro volta interconnessi con altri in una rete di rapporti sociali la cui complessità è pari a quella delle società delle scimmie antropomorfe o degli elefanti), il comportamento alimentare (basato sulla predazione), l’uso dello spazio (l’abitudine a compiere spostamenti di oltre 150 km al giorno a una velocità che può raggiungere i 55 km orari), per capire che un parco acquatico è quanto di più lontano dall’adattamento biologico di questi cetacei. Oltretutto, fatta eccezione per la conservazione di specie a rischio di estinzione laddove non sia possibile realizzarla nei loro habitat naturali, a mio parere non c’è davvero nessuna giustificazione zooantropologica alla detenzione di animali selvatici in cattività, tanto meno quella dell’utilizzo degli animali a scopo di intrattenimento, come in questo caso, o quella, spesso paradossalmente avanzata quando si parla di zoo e strutture analoghe, della funzione informativo-educativa.

Come influisce la cattività sul comportamento dell’animale e in che misura?

La cattività, quali che siano le condizioni di detenzione, obbliga l’animale a mettere in atto adattamenti fisiologici e comportamentali che gli consentano di sopravvivere nell’ambiente in cui viene detenuto. Il tipo e l’entità di questi adattamenti dipendono dalle caratteristiche biologiche dell’animale e dalle disparità esistenti tra l’ambiente in cui viene detenuto e il suo ambiente naturale, in termini di condizioni climatiche, spazio disponibile, modalità di alimentazione, situazione sociale, esposizione a stimoli visivi o acustici e così via. Tali disparità sono il più delle volte così cospicue da comportare per gli animali uno stato di stress cronico, determinato dal continuo tentativo di adattamento a condizioni ambientali inadeguate, che può condurre ad alterazioni fisiologiche che minacciano la salute, la sopravvivenza o la capacità riproduttiva degli animali e può manifestarsi anche attraverso anomalie comportamentali.

 

Quali sono le specie animali più inclini alla cattività e quali meno?

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Se si parla di animali selvatici nessuna specie può essere in nessun caso pensata come incline alla cattività, così come, in generale, nessun animale è incline a vivere in condizioni non conformi alle sue caratteristiche biologiche. Quello che si può dire, facendo riferimento alla storia delle domesticazioni operate dall’uomo a partire dal periodo Neolitico (un po’ più anticamente nel caso del cane), è che alcune specie tra quelle che l’uomo ha cercato di sottoporre al proprio controllo si sono adattate con minore difficoltà alle condizioni di vita da esso imposte, essendo dotate di tratti morfologici, fisiologici e comportamentali rispetto ai quali tali condizioni costituivano una forzatura non troppo deleteria.

 

 

In cosa consisterebbero questi tratti?

Questi tratti “facilitanti” (in termini biologici chiamati preadattamenti) sono, per esempio, le dimensioni contenute, l’alimentazione poco specializzata, la gregarietà, la sedentarietà, la plasticità comportamentale, la tolleranza alla prossimità con l’uomo e la mansuetudine. La mancanza di preadattamenti è uno dei motivi per cui, nella storia, alcuni tentativi di domesticazione non hanno avuto successo.

 

Tali caratteristiche sono, dunque, immodificabili?

 

Oggi, le moderne tecniche di allevamento, soprattutto quelle basate sulla manipolazione genetica, possono permettere di sfondare anche le barriere degli adattamenti naturali. Ma in questo caso a maggior ragione l’intervento dell’uomo solleva importanti perplessità etiche, riguardanti in generale il suo rapporto con la natura e nella fattispecie la questione del benessere animale. La sopravvivenza di un animale in cattività e persino il fatto che riesca a riprodursi non possono essere considerati indicatori sufficienti del suo buon adattamento alla detenzione.

 

Esistono segni particolari per riconoscere il disagio dell’animale in cattività?

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Gli studi nel settore del benessere animale hanno consentito di individuare una serie di parametri fisiologici e di indicatori comportamentali che possono essere utilizzati come segnali di uno stato di maladattamento e di stress. Ovviamente la scelta dei parametri fisiologici e degli indicatori comportamentali da valutare dipende di volta in volta dalla specie considerata.

 

Ci faccia qualche esempio

 

Tanto per citarne alcuni di carattere generale, indicatori fisiologici ritenuti espressione di uno stato di stress sono le variazioni del metabolismo, specifiche alterazioni del sistema immunitario e i cambiamenti nella produzione di alcuni ormoni, mentre indicatori comportamentali di disagio possono essere un’abnorme diminuzione o viceversa aumento dell’attività motoria, la perdita di interesse verso gli stimoli ambientali, l’esibizione di comportamenti incoerenti con il contesto, gli atti autolesivi, le stereotipie. Per quanto riguarda il comportamento, gli indicatori citati fanno riferimento a modificazioni eclatanti, ma nei casi specifici possono comparire segnali più sfumati, che solo una profonda conoscenza delle caratteristiche della specie e delle abitudini dei singoli animali coinvolti permette di cogliere tempestivamente.


Anche nell’orca erano stati riscontrati segni di questo tipo?

Tornando al fatto avvenuto al Sea World di Orlando, per esempio, alcune cronache hanno riportato che Tilikum non era nuovo a condotte pericolose nei confronti di esseri umani e che prima dell’inizio del tragico spettacolo del 24 febbraio avrebbe mostrato “segni di nervosismo”. Se attendibili, queste informazioni farebbero pensare che da parte delle strutture che hanno ospitato l’orca ci sia stata una insufficiente o scorretta valutazione delle sue modalità di interazione con l’uomo e del suo livello di adattamento alle condizioni di detenzione. Sebbene – se mi si permette un’illazione – la decisione di continuare a utilizzare in spettacoli acquatici un animale che aveva già provocato la morte di due persone, e che quindi dava evidenti segnali di disagio, fa pensare a un’attitudine verso gli animali piuttosto diffusa, che spesso passa anche attraverso il trasporto o l’ammirazione per essi, che è quella di volerli assoggettare o affiliare alla nostra passione a tutti i costi.

Cani e gatti domestici possono manifestare mutamenti comportamentali dovuti alla cattività? (penso ad esempio ai famosi pit-bull…)


 

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Il caso degli animali domestici va visto in un’ottica un po’ diversa, cioè tenendo conto del fatto che il rapporto con l’uomo, con ciò che ne consegue in termini di contesto ambientale, è parte integrante della loro storia evolutiva. Non sono semplicemente “abituati” alla presenza umana; per essi la condivisione di spazi, attività ed esperienze relazionali con l’uomo è diventata per così dire “naturale” e imprescindibile. Tanto è vero che gli animali derivati dai processi di domesticazione attuati dall’uomo sono considerati specie o in qualche caso sottospecie diverse dai rispettivi progenitori selvatici. Sono animali che, sottoposti alle pressioni selettive legate all’intervento umano, hanno attuato dei veri e propri cambiamenti fisiologici e comportamentali, che li hanno resi adattati a vivere nelle condizioni ambientali create dall’uomo.


Eppure, anche gli animali domestici mostrano spesso segni di squilibrio o disagio

Detto questo, anche per gli animali domestici resta valido il principio di fondo della conformità delle condizioni di vita alle caratteristiche biologiche specifiche. Quindi, se in questo caso per cattività si intende il confinamento in spazi e situazioni ambientali nei quali gli animali non possono esplicare il loro normale repertorio comportamentale, certamente il discorso sugli effetti di uno stato di disadattamento e di stress è riproponibile esattamente negli stessi termini sopra accennati. Sono ben noti, per esempio, le sindromi da deprivazione e le reazioni depressive di cani e gatti alloggiati in box o gabbie nei canili, le stereotipie e i comportamenti compulsivi degli animali da laboratorio stabulati inadeguatamente, i comportamenti autolesivi e le condotte incongruenti degli animali da reddito (bovini, pecore, capre, maiali, polli, conigli) detenuti negli allevamenti intensivi.

 

Perché, a volte, diventano “violenti”?

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Altra cosa è la questione dell’aggressività o di altri comportamenti problematici degli animali di casa, innanzitutto perché essi non sono propriamente detenuti in cattività ma condividono l’ambiente domestico con l’uomo (per quanto sempre per scelta di quest’ultimo) e poi perché questi comportamenti possono avere all’origine cause diverse: una predisposizione genetica che può rendere la loro comparsa più probabile, benché non obbligata (è il caso delle razze di cani selezionate appositamente per il tratto dell’aggressività), una patologia organica che induce l’animale a cambiare le proprie abitudini o a reagire in modo diverso all’ambiente che lo circonda, oppure, come in molti casi, una modalità di interazione scorretta da parte dell’uomo.

 

 

Esiste una sorta di decalogo di azioni da fare o evitare nella convivenza domestica uomo-animale?

Il rapporto tra l’uomo e i cosiddetti pet o animali familiari è così articolato da essere difficilmente sintetizzabile in un decalogo di regole per la convivenza. In esso entrano in gioco, sia per l’uomo sia per l’animale, esperienze cognitive e valenze emozionali che rendono la relazione tra ogni singola persona e il suo compagno-animale peculiare e sempre dotata di una connotazione storica, in quanto si costruisce sulla base della conoscenza reciproca. Le indicazioni che si possono dare a chi si appresti ad affrontare la convivenza con un animale domestico o trovi in essa qualche difficoltà devono sempre essere ricondotte a un presupposto fondativo di carattere generale, costituito da una buona conoscenza da un lato delle caratteristiche biologiche e del repertorio comportamentale della specie alla quale l’animale appartiene e dall’altro dei suoi tratti temperamentali particolari.

Cosa intende con “buona conoscenza”?

 

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 Il primo tipo di conoscenza consente di capire come l’animale percepisce la realtà e interagisce con essa (in quanto cane o in quanto gatto o in quanto furetto e via dicendo), di immaginare quali possono essere le motivazioni che sottendono di volta in volta i suoi comportamenti senza cadere nell’errore di attribuire a essi giustificazioni o obiettivi tipicamente umani, di interpretare correttamente i suoi segnali e quindi di comunicare in modo più efficace con lui. Il secondo tipo di conoscenza permette di cogliere i bisogni e le prerogative del singolo animale e di conformare a essi le indicazioni di carattere generale che provengono dalla conoscenza della specie.

Che utilità può avere?

 

Nella gestione del rapporto con l’animale la consapevolezza delle differenze individuali che esistono all’interno della specie è molto importante: è ciò che genera la dimensione storica della relazione e rende conto dell’unicità dell’esperienza affettiva. Quando si esplica nella convivenza, la relazione tra l’uomo e l’animale non è mai solo l’incontro tra due specie, è sempre anche l’incontro tra due individui.

È possibile paragonare la cattività animale con la “cattività umana” dovuta a una vita vissuta in luoghi sovraffollati?

È sempre difficile fare parallelismi stretti tra l’esperienza di un animale e quella dell’uomo. Facendolo si corrono due rischi: uno è quello di semplificare una data realtà vedendo solo le cose che ci si aspetta di vedere e trascurandone gli aspetti precipui; l’altro è quello di adottare la modalità di interazione con l’ambiente di una specie come modello di riferimento, con il quale mettere a confronto il comportamento di un’altra specie. Come già accennato, la reazione di una specie animale alla vita in cattività dipende molto dalla sua storia evolutiva e dagli adattamenti acquisiti nel corso di essa. Tanto per fare un esempio, per animali gregari (come molti primati, canidi e cetacei) la compresenza di conspecifici – purché la situazione di gruppo rispecchi almeno a grandi linee la loro organizzazione sociale naturale – è essenziale, mentre per animali solitari (come alcuni grossi felini o gli orsi) può essere fonte di grave disagio.

 

 

Dove sta, quindi, a proposito delle condizioni di stress da sovraffollamento alle quali uomini e animali possono esser sottoposti, la principale differenza?

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È sicuramente vero che condizioni di vita sociale profondamente dissonanti rispetto alle attitudini – e il sovraffollamento lo è per definizione, tanto che difficilmente si determina nelle popolazioni naturali – sono disadattative, anche per le specie altamente sociali, uomo compreso. Ed è vero che alcuni parallelismi tra l’uomo e altri animali, quanto meno altri mammiferi, esistono per quanto riguarda le risposte fisiologiche allo stress. In questo caso, comunque, a differenziare la condizione umana da quella degli animali in cattività è il fatto che, per quanto artificioso sia, nel sovraffollamento degli ambienti di vita – a meno che non si tratti di situazioni di confinamento forzato (carceri) – l’uomo non sperimenta realmente una condizione di cattività. Anche se la metafora della “tigre in gabbia”, spesso spontaneamente richiamata a questo proposito, può rendere bene l’esperienza di uno stato di stress ambientale!