Non stanno ottenendo grandi risultati i tentativi di fermare la chiazza di petrolio fuoriuscita da una piattaforma al largo delle coste della Louisiana. Si sono già riversati in mare, da due squarci apertisi nel condotto che congiunge la piattaforma al fondale, circa mille barili al giorno. Una macchia lunga 45 chilometri, larga 30, in alcuni punti addirittura 130. Nell’esplosione sono morti sette operai e altri 11 risultano dispersi. Si sono usati anche robot subacquei nel tentativo di attivare una valvola di sicurezza per interrompere il flusso del greggio, ma la profondità a cui si trova la valvola, circa 1600 metri sotto il livello del mare, ha reso le operazioni estremamente difficili.



Abbiamo chiesto il parere di due esperti, per capire la reale portata di quanto sta avvenendo e le sue conseguenze. In questa prima parte ospitiamo le risposte del Professor Giorgio Bavestrello, professore ordinario di Zoologia presso la Facoltà di Scienze dell’Università Politecnica delle Marche, esperto di ecosistemi marini.



Ci sono stati casi analoghi a quanto sta accadendo al largo delle coste della Louisiana, chiazze di petrolio che hanno raggiunto dimensioni, come in questo caso, anche di 130 chilometri?

Credo che per il momento non sia facile fare paragoni. Il primo caso di catastrofe ambientale derivante da versamento di greggio in mare fu il naufragio della petroliera Torrey Canyon avvenuto nel canale della Manica nel 1967. Furono disperse in mare 120.000 tonnellate di greggio con interessamento di 180 chilometri di coste inglesi e francesi. Da quel momento gli incidenti furono numerosi. Ricordo nel 1996 quello della Exxon Valdez che si incagliò sulle coste dell’Alaska versando in mare 38.000 tonnellate di petrolio. Il disastro fu particolarmente impressionante perché interessò un numero sterminato di uccelli e mammiferi marini comprese numerose orche. Fu anche un caso di grande interesse legale perché per la prima volta il governo degli Stati Uniti condannò la compagnia al pagamento dei danni ambientali.



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Una chiazza di petrolio che si forma in alto mare, produce danni all’ecosistema solo in superficie o anche in profondità?

Gli sversamenti di petrolio in mare producono danni a diversi livelli. Il greggio distrugge numerosi organismi planctonici che vivono all’interfaccia aria/acqua o in prossimità di essa. In particolare viene colpito il cosiddetto plancton gelatinoso composto prevalentemente da meduse e salpe. Si tratta di organismi predatori la cui riduzione può portare a complessi effetti sulle catene alimentari. Inoltre, nell’area della chiazza di greggio viene compromessa la produzione primaria che, in ambiente marino, è essenzialmente legata all’attività del fitoplancton. Inoltre con l’andar del tempo le frazioni del greggio più leggere evaporano separandosi dalla porzione bituminosa che precipita sul fondo. Queste masse di bitume depositate sui fondali interagiscono con le catene trofiche del benthos danneggiando gravemente la pesca. Infine quando il greggio galleggiante arriva in prossimità delle coste soffoca meccanicamente gli organismi presenti nella zona di marea sia delle coste rocciose che delle spiagge.

 

Il danno ambientale potrebbe essere davvero di grande portata soprattutto se il petrolio raggiungesse le isole Chandeleurs, un arcipelago a 45 chilometri dalla piattaforma nel quale si riproducono tartarughe, pellicani e altre specie di uccelli.

Un gruppo di animali particolarmente sensibile agli inquinamenti acuti da idrocarburi è composto da tutti quei vertebrati che, in diverso modo intrattengono rapporti con la superficie del mare. Sono particolarmente coinvolti gli uccelli marini che si nutrono immergendosi e quindi sono costretti ad attraversare lo strato di greggio oppure quelli che si posano sulla superficie delle acque. In ogni caso il greggio imbratta il piumaggio non consentendo più il volo. Una situazione analoga si osserva per i rettili marini come le tartarughe che vivono e si nutrono in mare ma devono emergere per respirare. L’area della Louisiana è infine ricca di ambienti lagunari di grande interesse che ospitano animali ormai sempre più rari come ad esempio i manati. Se l’onda nera andasse a investire queste zone il danno sarebbe realmente incalcolabile.

 

Per rimediare ai danni di una chiazza di questa ampiezza, quanto tempo è necessario? O i danni sono irreparabili?

I casi capitati fino ad oggi dimostrano che nel giro di un decennio gli ecosistemi riescono a riprendersi. E’ ovvio che non tutti gli ambienti possono reagire con la stessa velocità. Un incidente di questa portata su una barriera corallina potrebbe portare a danni recuperabili solo con tempi lunghissimi.

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Quali danni ci sono per l’uomo in queste situazioni? Che impatto può avere sull’uomo il danneggiamento dell’ecosistema marino?

I danni per l’uomo sono molto diversificati. Alcuni sono diretti, come il danno provocato sulla pesca. In alcuni casi, per molti anni, il bitume depositato sul fondo previene completamente l’utilizzo di alcuni tipi di attrezzi come, ad esempio le reti a strascico, che tendono a riempirsi della massa bituminosa. Questo fa sì che intere flotte pescherecce debbano cambiare tipo di armamento con i conseguenti costi. Danni più indiretti derivano dal danno provocato a paesaggi di grande interesse naturalistico importanti per un eco-turismo oggi particolarmente rilevante. In generale viene danneggiata la fruizione umana sull’ambiente marino a tutti i livelli. Più in generale disastri ambientali di tale portata determinano un impoverimento e una banalizzazione dell’ambiente in cui l’uomo vive con danni nella qualità della vita a livello personale e sociale la cui entità è difficile da valutare.

 

Nel Mediterraneo, soprattutto nelle vicinanze delle coste italiane, ci sono stati casi analoghi?

Nel Mediterraneo il più grave disastro ambientale è stato l’affondamento in Mar Ligure della petroliera Haven, avvenuto nel 1991. I danni sulle comunità costiere del ponente ligure furono straordinariamente gravi. Ancora oggi ampie aree sono completamente precluse alla pesca a strascico. Bisogna dire che 20 anni dopo, l’incidente non ha lasciato però grandi tracce anzi, il relitto è diventato una straordinaria barriera artificiale su cui si è insediata una ricchissima comunità di organismi bentonici ed è meta di un abbondante turismo subacqueo.

 

C’è un qualche sistema che si possa adottare per evitare situazioni del genere? O siamo condannati a vivere sempre a rischio?

Negli ultimi decenni l’attenzione verso l’ambiente marino è enormemente aumentata. Una serie di norme tecniche, accettate a livello mondiale, hanno drasticamente abbattuto l’inquinamento cronico da idrocarburi che era derivante da una scorretta manutenzione delle petroliere. Tanto per rimanere in Mediterraneo sono praticamente scomparsi gli aggregati bituminosi che alcuni decenni or sono erano un elemento disturbante tipico degli arenili. Purtroppo date le caratteristiche intrinseche degli eventi occasionali che determinano casi di inquinamento acuto, questi stessi sono molto più difficili da prevenire. E’ ovvio che migliorie tecniche potranno sempre essere apportate ma rimane sempre la possibilità che un evento meteorologico di particolare entità possa distruggere una piattaforma di estrazione o affondare una petroliera. Purtroppo alcuni ecosistemi marini come le scogliere coralline sono straordinariamente sensibili a questo tipo di danni e i tempi di ripresa rimangono, a tutt’oggi sconosciuti.