Cosa rende possibile il faticoso incedere della ricerca scientifica? La passione del ricercatore, il lavoro di chi lo ha preceduto, le sue intuizioni, la sua formazione… Ma c’è un elemento in più. Non è pensabile uno sviluppo della conoscenza scientifica senza il supporto della tecnologia, spesso all’avanguardia. L’intreccio fra scienza e tecnologia è così stretto che a fatica si può individuare un qualche confine. Tanto è vero che i non avvezzi a frequentare laboratori di ricerca rimangono spesso sorpresi dallo scoprire quante e quali meraviglie e novità tecnologiche gli scienziati riescano a inventarsi nel difficile ed esaltante lavoro della ricerca scientifica, soprattutto in quella di base.
Per svilupparsi la tecnologia deve seguire un percorso non sempre preventivabile: a volte deve fare dei veri e propri salti in avanti, ma molto più spesso, per rendere concreta la visione che la guida, deve con pazienza mettere un nuovo passo davanti a un altro ben definito, e farsi largo nella risoluzione dei problemi. Insomma, la tecnologia, per sua natura proiettata al futuro, ha bisogno di poggiare sul passato, su qualcosa che esiste “da prima”. Ma quanto prima? Quanto passato?
In linea di principio, tutto quello che viene prima serve, ma può accadere che un sofisticato esperimento di fisica delle particelle abbia bisogno di un contributo determinante dall’antichità? La risposta è sì, ed è esattamente quello che sta accadendo ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso, dove si sta per inaugurare l’esperimento CUORE (abbreviazione di Cryogenic Underground Observatory for Rare Events, Osservatorio Criogenico Sotterraneo per Eventi Rari), dedicato alla misura del doppio decadimento Beta, elusivo fenomeno tramite il quale si dovrebbe riuscire a definire una volta per tutte uno dei misteri della fisica moderna: la massa del neutrino.
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Se 22 anni sono pochi dal punto di vista della fisica, costituiscono però un periodo considerevole su scala umana. Per essere sicuri di un rate di emissione significativamente più basso, diciamo di almeno 100 volte di meno rispetto all’oggi, dovremmo lavorare il piombo e aspettare almeno sette periodi di dimezzamento, cioè 164 anni. Decisamente troppo tempo per eseguire un esperimento di fisica. E questo tempo non darebbe neanche le garanzie richieste dal nostro esperimento.
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Per fortuna nella ricerca, come nella vita, le sorprese sono sempre dietro l’angolo: in questo caso infatti l’archeologia è venuta in soccorso alla fisica delle particelle, grazie al ritrovamento di un carico di piombo su una nave romana al largo di Oristano. Vent’anni fa infatti venne trovata da un sommozzatore dilettante al largo della costa una nave romana di 36 metri di oltre 2000 anni fa che – tra l’80 e il 50 a.C. – trasportava un migliaio di lingotti di piombo. La nave proveniva dalla Spagna ed era probabilmente diretta a Roma. Nella sua stiva erano trasportati, su un pavimento di rame, circa 2000 lingotti di piombo. Il relitto, con tutto ciò che conteneva è rimasto per due millenni sotto oltre trenta metri d’acqua in un fondo sabbioso.
Ora, a 2000 anni di distanza, 120 lingotti recuperati da quella nave sono pronti a svolgere un compito completamente diverso da quello pensato quando sono stati realizzati, garantendo la migliore schermatura dalla radioattività ambientale e la certezza che il contributo dovuto all’isotopo Piombo-210 è almeno centomila volte inferiore di quello derivante dal miglior piombo puro ottenibile oggi.
«Certo il comandante di quella nave non avrebbe mai immaginato che il suo piombo sarebbe stato utilizzato duemila anni dopo per qualcosa che ha che fare con l’Universo e le stelle – commenta il presidente dell’INFN, professor Roberto Petronzio – Storia e scienza possono ora parlarsi attraverso i secoli grazie alla ricerca nella fisica delle alte energie».