Energia dal rumore. Sembra una boutade, invece è realtà: protagonisti il Luca Gammaitoni e il suo gruppo di ricerca attivo presso il NiPS (Noise in Physical Systems Laboratory) dell’Università di Perugia. In genere, sentendo la parola “rumore”, viene da pensare ad un qualche suono sgradevole. In realtà per fisici e ingegneri è rumore qualsiasi vibrazione casuale: dalle oscillazioni del vento, al disturbo – un po’simile a piccoli fiocchi di neve – sovrapposto alle immagini di un televisore mal sintonizzato, al gracchiare di una radio quando si entra in galleria (in questi ultimi due casi si sta in qualche modo “vedendo” o “ascoltando” il movimento caotico degli elettroni nei circuiti di televisione e radio). 



Il rumore, tradizionalmente considerato il “nemico numero uno” degli ingegneri elettronici, ha però rivelato, negli ultimi anni, volti nuovi e stupefacenti a chi ha saputo studiarlo con attenzione e passione. Uno dei più interessanti filoni di ricerca sul rumore, quello che ha portato alla descrizione dei cosiddetti fenomeni di “risonanza stocastica”, ha una storia marcatamente italiana. Il professor Gammaitoni spiega: «La scoperta – fortemente contro intuitiva e proprio per questo molto affascinante – si può riassumere dicendo che, in determinate situazioni, una giusta dose di rumore crea ordine». Il modello della risonanza stocastica è stato originariamente proposto nel 1981 da un gruppo di fisici dell’Università La Sapienza di Roma, tra cui in particolare Giorgio Parisi. Lo scopo era spiegare il susseguirsi delle ere glaciali. L’intuizione è che, dati:



-un sistema caratterizzato da due situazioni di equilibrio (clima temperato e clima freddo)

-una debole variazione regolare insufficiente a consentire il passaggio da uno stato di equilibrio all’altro (le variazioni climatiche deterministiche legate al movimento della Terra)

-la giusta “dose” di rumore (le fluttuazioni casuali degli eventi climatici atmosferici);

Si scatena un processo impensabile: il passaggio regolare da uno stato all’altro. L’aspetto sorprendente è la regolarità: un forte rumore riuscirebbe da solo a causare il salto da una posizione di equilibrio all’altra, ma lo farebbe inevitabilmente accadere a intervalli casuali. Invece la giusta quantità di rumore non solo rende possibile passaggi di stato che senza non potrebbero avvenire, ma si “sintonizza” con la variazione regolare (per questo si parla di risonanza) facendo sì che i passaggi abbiano luogo a intervalli costanti. 



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Nessuno è profeta in patria: mentre in climatologia, l’ambito in cui è nata, la risonanza stocastica è stata fortemente criticata, in numerosi e diversissimi altri contesti si è rivelata uno strumento eccezionale per chiarire fenomeni prima inspiegabili. Tanto per menzionare un esempio dalla biologia: il gambero sfrutta il moto disordinato della schiuma dell’acqua per cogliere per tempo la debole vibrazione regolare del predatore – il pesce persico – che si avvicina.

Verso la fine degli anni ’80 il gruppo di Perugia riprende l’idea della risonanza stocastica e la approfondisce, in particolare, nello studio del rumore nei sistemi elettronici. I risultati sono riconosciuti a livello internazionale e coronati, negli ultimi anni, dall’idea di sfruttare proprio questo meccanismo per mettere a punto un oscillatore non lineare capace di estrarre energia dal rumore. Un aspetto particolarmente promettente è la possibilità di miniaturizzare questo generatore, cosa che ne fa il candidato ideale per risolvere l’annoso problema dell’alimentazione dei microsensori. I microsensori sono piccoli dispositivi in grado di misurare il valore di una qualsiasi grandezza fisica e di radiotrasmetterlo a breve distanza.

 

Sono molto verosimilmente il futuro di quasi ogni sistema di monitoraggio: dai valori di pressione nei punti chiave di un ponte o di un edificio, al controllo del battito cardiaco o della concentrazione di zuccheri nel sangue. Non per niente si tratta di un settore in cui negli Usa si investe moltissimo in ricerca, soprattutto nell’ultimo decennio.Gammaitoni spiega: «Attualmente i microsensori in commercio hanno grosso modo le dimensioni di una moneta. Esistono prototipi con volume di circa un millimetro cubo. La nuova frontiera sono dimensioni di pochi millesimi di millimetro (micrometri). La tecnologia per misurare grandezze fisiche su queste scale è già disponibile, così come ne è possibile la radiotrasmissione.

 

 

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  Il vero collo di bottiglia è come fare ad alimentare microsensori così piccoli. Non esistono, infatti, batterie di queste dimensioni. E se anche fossero disponibili sarebbe comunque impensabile sostituirle quando necessario. Come se non bastasse è noto che le batterie sono fortemente inquinanti: un ulteriore grave svantaggio visto che i microsensori sono “a perdere”. Date le loro dimensioni non è immaginabile recuperarli una volta che hanno esaurito le loro funzioni: basti pensare che negli Stati Uniti si parla di “smart dust” (polvere intelligente)».

I microgeneratori basati sulla risonanza stocastica sembrano proprio la soluzione. Gammaitoni e i suoi collaboratori hanno subito depositato la domanda di brevetto e si sono coraggiosamente lanciati in una nuova avventura. Nel 2007 hanno dato vita a un’impresa, la Wisepower Srl. È stata ed è tuttora molto dura. L’università ha dato un po’ di aiuto mettendo a disposizione un consulente che potesse aiutare nelle pratiche per ottenere il brevetto e, più in generale, tutelare l’invenzione. Nonostante il generoso impegno di alcuni colleghi è però mancato il coraggio di andare fino in fondo nel sostenere Wisepower.

«Ciò che tragicamente manca a tutti i livelli, nel privato come nel pubblico – racconta Gammaitoni – è il capitale di rischio. Sono state importate dal mondo anglosassone le strutture di ausilio: i “business angel” e gli incubatori di impresa. Ma non l’apertura a investire su un progetto innovativo. Si sente parlare poco di innovazione e solo in modo strumentale. Tuttavia è fuori di dubbio che crea più valore chi da un sacchettino di sabbia che costerebbe mezzo centesimo tira fuori un chip (circuito integrato) da 100 $ di chi si limita a comprare il chip per rivenderlo – se gli va bene – a 110 $…»

E così, per cercare di attingere risorse dove – crisi o non crisi – per le buone idee i soldi si riescono spesso a trovare, verso la fine del 2009, nasce una sorella americana di Wisepower. «Negli Usa, in media, uno spin-off universitario esplode o chiude nell’arco di due anni. Da noi, invece, si trascina per anni uno stato di incertezza che porta inevitabilmente ad una lenta agonia». Un’ultima domanda, professore, in questo panorama oggettivamente triste: chi o che cosa vi ha aiutato? «Sant’Agostino». Come dice, professore, Sant’Agostino? «Sì, vedere amici e colleghi negli Stati Uniti, in particolare in California: Si isti et istae, cur non ego?».

 

(a cura di Carlo Colesanti)

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