È veramente in affanno la BP nel tentativo di arrestare l’onda nera che affiora a ritmo incessante nel Golfo del Messico. Tanto che è pronta ad accogliere suggerimenti da qualunque parte provengano e ha attivato anche il popolo del web sperando in qualche soluzione geniale imprevista. L’ultimo annuncio fisserebbe fra una decina di giorni la data della chiusura della falla. Ma la forza della natura sembra sempre più ostinata e non si lascia domare facilmente.
D’altra parte, si sa ancora poco circa le reali cause dell’incidente: finora infatti tutte le informazioni provenienti sia dal sito BP che dai media si limitano a descrivere le tecniche messe in atto per tentare di risolvere il problema. Difficile quindi stabilire se si debba parlare di incidente, di guasto, di disattenzione, di sfortuna, di qualcosa di inevitabile.
Si deve comunque considerare che si operava in acque profonde, dove qualsiasi operazione, anche la più routinaria, risulta più difficoltosa a causa delle elevate pressioni che si esercitano sul fondo del mare e della distanza del pozzo dai sistemi di controllo. Solitamente i grossi incidenti sono frutto di più concause, di anomalie o malfunzionamenti che si verificano in successione e portano a una situazione non più controllabile. L’esperienza di altri incidenti peraltro insegna che in nessun caso si può parlare di sfortuna o di qualcosa di inevitabile.
Nel frattempo scienziati e tecnologi di diverse aree disciplinari iniziano a considerare tutte le implicazioni a medio e lungo termine del drammatico incidente. Per i biologi marini e per gli ecologi si tratta di stimare l’entità e la durata degli impatti sull’ecosistema del Golfo e sugli ambienti confinanti. Si cerca di vedere se e come è possibile attuare strategie di contenimento dei danni e di recupero in tempi ragionevoli. Stimolando anche la reazione delle stesse risorse ambientali e valorizzando tutte le capacità naturali di adattamento e di resilienza, cioè di ripresa dopo un evento traumatico.
Quello che invece dipenderà esclusivamente dall’opera dell’uomo sono le soluzioni tecnologiche messe in campo per far funzionare questo tipo di piattaforme: fino ad arrivare a trasformarne la fisionomia o, se necessario, a ridurne l’utilizzo. Qui in primo piano sono gli ingegneri impiantisti, chiamati a rivedere i criteri di progettazione, di gestione e di manutenzione di strutture del genere.
È ben noto che i principali fattori di rischio di una piattaforma petrolifera sono legati alla fase di trivellazione, quando non sono ancora installati i sistemi di controllo definitivi e non è del tutto prevedibile la tipologia di comportamento della formazione rocciosa che si sta perforando.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO
È possibile che si verifichi un passaggio di gas, normalmente associato al petrolio, dalla roccia all’interno del pozzo, e quindi una sua risalita in superficie, con conseguente aumento della pressione e rischio di esplosione per rottura meccanica delle tubazioni di superficie o incendio. Durante il normale esercizio poi, il rischio è legato all’eventuale fuoriuscita di idrocarburi liquidi o gassosi e successivo incendio.
In ogni caso, se qualcosa non va si tratta di difetti di qualche componente dei sistemi di sicurezza, come può essere accaduto in questo caso. Sistemi che in realtà sono numerosi, ridondanti e diversificati, sono cioè posizionati in molti punti della piattaforma, spesso duplicati e basati su diverse tecnologie.
Vi sono rilevatori di incendio che segnalano presenza di fumo, emissioni anomale di luce o aumenti anomali della temperatura, e rilevatori di gas; tutti collegati con allarmi e col sistema antincendio che aziona automaticamente le pompe. Gli allarmi sono di diverso tipo, sia visivi che sonori, localizzati su tutta la piattaforma. Ci sono squadre di emergenza addestrate e pronte per interventi immediati, piani di evacuazione attraverso scialuppe progettate per resistere alla presenza di fuoco nel mare attorno alla piattaforma.
Dove sono presenti gas nocivi, tutto il personale è dotato di maschera e bombola che permettono l’evacuazione in caso di emergenza. Il personale è addestrato con esercitazioni periodiche in piattaforma, tutti devono aver superato un corso di tecniche antincendio e sopravvivenza in mare, viene effettuato un briefing di sicurezza a tutto il personale che arriva su una piattaforma. Tutte le piattaforme hanno solitamente una nave di sostegno che staziona permanentemente in loco pronta a intervenire.
C’è poi tutta l’attività di manutenzione, che è di due tipi: preventiva e straordinaria. La preventiva si basa su analisi di affidabilità, cioè sull’utilizzo di banche dati che contengono le statistiche delle frequenze di guasto delle apparecchiature presenti in piattaforma. Questi dati sono utilizzati per la preparazione dei programmi di manutenzione e ispezione. Ogni apparecchiatura è dotata di una scheda di manutenzione preparata dal fabbricante, nella quale sono indicati i controlli periodici che devono essere effettuati.
Durante le fermate programmate, solitamente una all’anno, le apparecchiature vengono aperte o smontate e ispezionate. Periodicamente vengono misurati gli spessori delle tubazione e dei recipienti in pressione. Il magazzino contiene tutte le parti di ricambio necessarie, i tecnici sono in grado di intervenire su ogni tipo di anomalia.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO
La pericolosità è legata sia al fluido prodotto, sia alle condizioni ambientali. Il fluido prodotto può contenere un gas velenoso come l’anidride solforosa, può essere ad alta pressione e quindi sollecitare maggiormente le tubazioni, può avere un’alta temperatura. Un ambiente rigido e ventoso come quello del Mare del Nord rende più rischiosa l’eventuale permanenza di uomini in mare, i trasporti via mare e via elicottero. Un ambiente caldo e umido invece rende necessaria una più frequente manutenzione della struttura in acciaio.
Vengono considerate anche le diverse situazioni geografiche. Le piattaforme oceaniche sono progettate in maniera da resistere a onde più alte di quelle, ad esempio, del Mediterraneo. Al di là di questo non vi sono altre differenze sostanziali tra le piattaforme oceaniche e quelle in mari interni.
Sembrerebbe tutto studiato per bene: tanto che, sebbene normalmente una piattaforma sia progettata per una vita di vent’anni, quasi sempre la ridondanza progettuale e i margini di sicurezza applicati permettono di averla in buono stato anche al di là del termine previsto.
Eppure l’imponderabile è pronto a insinuarsi in qualche punto debole presente anche nei sistemi più raffinati. Ciò chiede ai tecnici di essere rigorosi e di non sopravvalutare la capacità di controllo di tali sistemi, che sono pur sempre sistemi uomo-macchina.