Sull’onda delle dichiarazioni di un’associazione di medici britannici, secondo cui l’omeopatia sarebbe “stregoneria”, abbiamo assistito a un dibattito tra il farmacologo Silvio Garattini e Christian Boiron, presidente dei Laboratoires Boiron, azienda leader nel settore dei medicinali omeopatici, cui è stato dato ampio risalto dagli organi di stampa.
Quale esperto della materia (mi occupo di ricerca in questo campo da più di vent’anni) ho partecipato all’incontro che aveva come titolo significativo “La salute tra responsabilità e ideologia”. Senza entrare direttamente nelle argomentazioni – per lo più inconciliabili e inconciliate – dei due “contendenti”, esprimo qui alcune considerazioni, basate sulla mia esperienza.
Quando nel lontano 1989 iniziai a interessarmi di omeopatia come materia di ricerca in ambito universitario, il mio allora direttore mi disse che si trattava di una follia, di un’assurdità fuori dal fertile solco della medicina moderna, per cui fui “squalificato” e dovetti cambiare posto di lavoro, spostandomi in un altro Istituto dove invece il direttore mi disse: “Se hai la passione, fai pure la ricerca, purché non mi chiedi soldi e sistemazione accademica”.
L’accusa di follia era basata sulla convinzione che la legge di Avogadro (principio di chimica stabilito alla fine dell’Ottocento, per cui non esistono molecole di principio attivo oltre una certa diluizione) sia una barriera insuperabile per la farmacologia.
L’omeopatia, da tale punto di vista “garattininano”, è solo acqua fresca, ovvero è “il nulla” (testuali parole). Sulla base di mie esperienze personali positive con le cure omeopatiche, non mi accontentai di tale motivazione e interrogai dei fisici esperti di acqua – fresca o calda non importa – i quali invece mi dissero che esisteva qualche plausibilità per cui le soluzioni omeopatiche potessero registrare e trasmettere informazioni agli esseri viventi. Così, quella che mi si era presentata come posizione ideologica, idea preconcetta basata su teorie dell’Ottocento, per me divenne ipotesi di lavoro.
Nella mia ricerca ho seguito due principi-guida molto generali: il primo è stato il paolino “esamina ogni cosa, trattieni ciò che vale”; il secondo quello del premio Nobel Alexis Carrel: “Molto ragionamento e poca esperienza conducono all’errore, molta esperienza e poco ragionamento conducono alla verità”.
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In questi anni ho svolto molte ricerche sia in laboratorio, sia su animali da esperimento, sia su esseri umani (queste ultime in collaborazione con omeopati). Mai nel mio gruppo abbiamo pensato all’omeopatia come medicina “alternativa” alla scienza medica attuale, sempre invece come medicina complementare e integrata, anche sulla scorta delle attività dell’Osservatorio Medicine Complementari, prima iniziativa del genere in Italia messa in piedi in collaborazione con l’Ordine dei Medici e altri colleghi universitari.
Brevemente, posso riferire che i nostri studi hanno avuto esito talvolta positivo nel senso di una dimostrazione di reale efficacia del rimedio omeopatico, altre volte negativo nel senso che su certi modelli sperimentali l’efficacia è stata nulla o comunque non statisticamente significativa.
Non è qui il caso di riassumere la mole di ricerche fatte da noi e da molti altri gruppi in Italia e all’estero che hanno portato ad aumentare le evidenze in questo settore, cosicché oggi le pubblicazioni recensite sulle principali banche-dati internazionali superano le 4000. Come in ogni campo della ricerca biomedica, le novità fanno fatica ad affermarsi e trovano ostacoli nell’establishment dei centri di potere e di pensiero.
Nel caso dell’omeopatia, la resistenza è basata ancora fortemente su posizioni ideologiche piuttosto che su vere e proprie argomentazioni scientifiche del tipo di quelle che normalmente fanno avanzare le conoscenze: qualcuno scopre (o crede di aver scoperto) qualcosa, pubblica il dato, altri provano a confutare o confermare queste prime evidenze, le teorie si modificano, si consolidano o spariscono dalla circolazione.
No, qui assistiamo ancora a sedicenti scienziati che – senza averlo provato – affermano direttamente che l’omeopatia non si potrebbe nemmeno studiare, perché è assurdo studiare “il nulla”, che se non c’è materia “non ci può essere” effetto. Per fortuna la scienza e la medicina non procedono solo a colpi di anatemi e di divieti, ma soprattutto per l’evidenza che si impone e questo è il caso della materia di cui stiamo parlando. Per fortuna la medicina non è solo una scienza nel senso stretto del termine ma anche una prassi, un’arte, una “cura” e l’ultima parola non la hanno i sapientoni ma i malati e i medici che loro si dedicano.
L’evidenza, debole ma non inesistente, c’è e va consolidandosi per cui oggi non è più possibile negarla se non facendo finta di non vedere. Qualcuno continua ad affermare che il fenomeno descritto da Benveniste nel 1988 – che andò famoso come quello della presunta “memoria dell’acqua” – è stato smentito definitivamente e dimentica di dire (o non sa) che è stato smentito due volte ma poi confermato dodici volte. Oppure si ripete che l’omeopatia è un placebo sulla base di una metanalisi pubblicata su Lancet nel 2005 (ripresa con gran clamore dai quotidiani) e si dimentica (o ignora) che tale studio è stato letteralmente fatto a pezzi da esperti di metodologia della ricerca clinica.
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Il nostro gruppo all’università di Verona ha recentemente pubblicato evidenze incontrovertibili che i medicinali omeopatici hanno effetti misurabili e riproducibili sui topi di laboratorio in modelli di ansietà. Queste evidenze sono quelle che, a distanza di oltre vent’anni dall’inizio della mia avventura scientifica in questo settore, hanno finalmente rotto il mio stesso “dubbio sistematico”, il dubbio del ricercatore di fronte ai fenomeni apparentemente inspiegabili e forse “ideologicamente” incredibili.
Quindi noi studiosi che ci occupiamo dell’argomento di frontiera speriamo in una maggiore attenzione da parte dei colleghi più “ortodossi”, ma soprattutto da parte delle autorità accademiche e degli organi che finanziano la ricerca biomedica.